La forma di protesta più estrema in Tunisia
Durante un litigio con alcuni poliziotti, Yassine Selmi, un uomo di 22 anni che viveva nella Tunisia centrale, era stato minacciato di essere sbattuto in prigione. Secondo i suoi familiari, è stato quello a spingerlo a darsi fuoco di fronte a un commissariato il 9 aprile 2024. È morto due giorni dopo nel reparto grandi ustionati di un ospedale della capitale Tunisi, dov’era stato trasferito d’urgenza. Selmi e la sua famiglia invece vivevano a Bou Hajla, nella provincia di Kairouan, un’area impoverita della Tunisia centrale.
Il 3 aprile nella città costiera di Sfax una donna aveva compiuto lo stesso gesto dopo un litigio con la polizia per via della bancarella su cui vendeva le sue merci. La donna non è morta, ma ha ustioni gravi in varie parti del corpo.
Per la Tunisia – il paese che la presidente del consiglio italiana Giorgia Meloni ha visitato per la quarta volta in meno di un anno per discutere di come fermare le migrazioni irregolari – gli episodi come questi risultano ancora tristemente familiari. Il primo pensiero va a Mohamed Bouazizi, il giovane venditore ambulante che il 17 dicembre 2010, scegliendo questo gesto di protesta così estremo, innescò quella che sarebbe passata alla storia come la rivoluzione dei gelsomini. Purtroppo quella rivoluzione non ha dato i frutti sperati e, nel corso degli anni, tante persone hanno continuato a emularlo.
Di questo fenomeno aveva parlato la giornalista francese Annick Cojean in un articolo bello, quanto terribile, uscito sul quotidiano Le Monde e ripubblicato da Internazionale. Lei partiva dal caso di Nizar Issaoui, un uomo di 35 anni che aveva raggiunto una certa fama come calciatore professionista, ma che il 10 aprile 2023 si era ucciso immolandosi con il fuoco davanti al commissariato di Haffouz, sempre nella regione di Kairouan, dopo aver discusso con alcuni poliziotti. Il motivo originario del contendere era il prezzo troppo alto delle banane.
“Perché Issaoui pensava di non avere altra scelta se non trasformarsi in torcia umana?”, si chiedeva Cojean all’inizio dell’articolo. La giornalista cercava poi di rispondere a questo interrogativo raccogliendo le testimonianze e i punti di vista delle persone comuni su quella forma così estrema di suicidio, collegandola in qualche modo al contesto della Tunisia di oggi, un paese in preda a una disperazione profonda.
Uno psicoanalista tunisino le aveva suggerito una chiave di lettura, dicendole: “L’immolazione contiene un’accusa. Ci dice: ‘È un omicidio, mi avete ucciso; lo stato incapace, perverso, sadico mi ha ucciso’. Esprime scontento e sofferenza, tutto quello che non si può dire con le parole, perché nessuno ascolta. E ognuno può identificarsi”.
Cojean citava anche degli studi sui suicidi in Tunisia prima e dopo la rivoluzione, secondo i quali dal 2011 il numero di questi casi si era moltiplicato per 1,8. In particolare, erano più che triplicati i suicidi con il fuoco.
Nessun intervento
L’ong Forum tunisino per i diritti economici e sociali (Ftdes) da anni registra le forme con cui i tunisini esprimono la loro insoddisfazione per le loro condizioni di vita. Nei suoi rapporti parla degli scioperi, delle proteste e delle altre forme di mobilitazione; delle migrazioni irregolari (tenendo conto, per esempio, del numero di migranti tunisini che arrivano sulle coste italiane); dei casi di violenza; di quelli di suicidio o tentato suicidio. Parlando di questi ultimi, nell’ultimo trimestre del 2023 il Ftdes ne ha registrati 31, un numero solo leggermente inferiore a quello dei mesi precedenti, ma sostanzialmente in linea con la tendenza dell’anno. Allo stesso tempo l’organizzazione nota con preoccupazione un calo netto delle mobilitazioni collettive e un aumento della violenza.
Secondo l’ong il fenomeno dei suicidi viene trascurato dalle autorità, inerti di fronte alle dimostrazioni di estrema sofferenza. Quei numeri, scrive il Ftdes, “rivelano che nulla è cambiato: non sono state adottate politiche pubbliche sulla salute mentale, non sono stati formati nuovi professionisti, non sono state lanciate campagne di sensibilizzazione, mentre i social network continuano a essere usati per spettacolarizzare e banalizzare questi gridi di allarme”. Con il rischio forte che qualcuno decida, ancora una volta, di seguire l’esempio.
Questo testo è tratto dalla newsletter Africana.