Le proteste in Kenya non si fermano
“Il punto non è più la finanziaria. Liberate tutte le persone arrestate arbitrariamente. Rimandate i militari nelle loro caserme. Permettete delle indagini indipendenti sulle uccisioni dei manifestanti e chiedete conto ai funzionari delle loro azioni”, ha scritto su X l’analista politica keniana Nanjala Nyabola.
Il suo appello fa capire come le manifestazioni in corso dal 18 giugno nelle piazze di tutto il Kenya non siano più solo una campagna contro la legge finanziaria, ma abbiano raccolto un malcontento generalizzato indirizzato a un intero sistema politico. Il governo del presidente William Ruto è accusato di essere non solo corrotto e lontano dal popolo, ma anche autoritario e neocolonialista.
La decisione di Ruto, annunciata nel pomeriggio del 26 giugno, di non ratificare la legge di bilancio tanto contestata nelle piazze e di rinviarla al parlamento per nuovi emendamenti non è bastata ad accontentare i manifestanti: molti di loro l’hanno liquidata come una trovata per accattivarsi i favori dei suoi critici. Il 27 giugno sono cominciate nuove proteste per ricordare le vittime della dura repressione di due giorni prima, quando la polizia ha sparato contro persone disarmate e i manifestanti hanno dato l’assalto al parlamento. Il bilancio delle vittime è ancora contestato. Secondo le agenzie di stampa internazionale i morti sono più di una ventina, ma alcune fonti (come il quotidiano keniano The Nation) parlano di almeno 53 morti, di una cinquantina di arresti e di almeno 17 attivisti rapiti dalle forze dell’ordine.
Il 26 giugno su X e sugli altri social media circolavano volantini che invitavano i cittadini a partecipare alla marcia del milione, se non dei dieci milioni, attrezzati con cartelli, fazzoletti, bottiglie d’acqua, una sciarpa o una fascia bianca, e la bandiera keniana. L’abbigliamento consigliato era sobrio, nei colori bianco e nero.
Chi promuove le proteste contro il governo?
Come spiega bene un articolo di Conrad Onyango su bird news agency, dal 18 giugno in Kenya migliaia di ragazzi e ragazze sono scesi in piazza per protestare contro la riforma fiscale, portando un cambiamento significativo nel panorama dell’attivismo giovanile in Africa. I cartelli con le parole “Reject finance bill” (no alla finanziaria) e le magliette con scritto “Gen Z”, osserva Onyango, “sono i segni dell’indignazione di una generazione colpita dalla disoccupazione, dalle tasse e da un alto costo del denaro. Finora si parlava dei nati tra il 1995 e il 2010 per la loro tendenza a confinarsi sui social media e a mostrare scarso interesse per i problemi del paese, ma ora le cose sono cambiate”. Questi giovani hanno dimostrato grande abilità nel coordinare le loro azioni, che si sono diffuse in 35 delle 47 province keniane, assumendo una dimensione nazionale. Hanno scelto metodi di protesta pacifici e ordinati, e di tenere fuori i vecchi leader politici dell’opposizione, come Raila Odinga. Da questo nucleo iniziale, il bacino dei manifestanti si è ampliato coinvolgendo un vasto pubblico.
L’obiettivo è far ritirare la legge finanziaria proposta dal governo, che prevede l’introduzione di nuove tasse su prodotti di uso comune e colpisce le fasce più fragili della popolazione. Il governo intende aumentare la pressione fiscale per raccogliere l’equivalente di 2,7 miliardi di dollari e mettere così sotto controllo il debito pubblico (che ha raggiunto il 68 per cento del pil), come previsto da un accordo che Nairobi ha stretto con il Fondo monetario internazionale.
Cos’è successo il 25 giugno?
Martedì scorso era prevista la terza protesta nell’arco di otto giorni ed è stata una giornata che ha segnato la storia del paese. I manifestanti avevano indetto uno shutdown, una paralisi generale di tutte le attività, arrivando a minacciare l’occupazione del parlamento, che quel giorno si era riunito per approvare la finanziaria. Di mattina erano già uscite le notizie sui primi “rapimenti” di attivisti e commentatori sui social media da parte delle forze dell’ordine.
Quel giorno c’è stata grande concitazione nel centro di Nairobi, dove sono esplose le tensioni con la polizia, che aveva usato da subito il pugno di ferro contro i manifestanti, facendo ricorso a gas lacrimogeni e proiettili veri. Un gruppo di manifestanti ha fatto irruzione nel parlamento vandalizzando alcune sale e ha appiccato il fuoco in una parte dell’edificio, mentre i parlamentari scappavano da un tunnel sotterraneo. Anche le case e le proprietà di alcuni deputati sono state danneggiate. A fine giornata il presidente ha inviato l’esercito nelle strade e ha tenuto un discorso in cui accusava dei non meglio identificati gruppi criminali organizzati di aver infiltrato le manifestazioni.
A che punto siamo ora?
Il presidente Ruto è stato eletto due anni fa con la promessa di lottare contro la corruzione e aiutare i poveri, gli hustler, cioè quelli che si arrangiano per arrivare a fine giornata. Tutta questa vicenda ha infranto per sempre quell’immagine. In questi giorni Ruto ha alternato il pugno di ferro a momenti in cui ha cercato di mostrarsi conciliante con i giovani, ma questi ultimi non gli hanno creduto: ai loro occhi, sono più rilevanti i morti, i blindati nelle strade e le sparizioni forzate. Non è quindi facile dire come evolverà la situazione. È certo, invece, che il modo in cui il governo keniano ha gestito le manifestazioni ha contribuito ad aggravare i suoi debiti con gli investitori internazionali.
Questo testo è tratto dalla newsletter Africana.
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