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La ferrovia angolana al centro della corsa ai minerali

Uno dei treni in servizio tra le città di Lobito e Benguela, in Angola, nel 2013. (Wolfgang Kaehler, LightRocket/Getty Images)

Il 20 giugno, alcuni giorni dopo la chiusura del vertice del G7 a Borgo Egnazia, la presidente del consiglio Giorgia Meloni è tornata sulla strategia italiana per l’Africa chiamata “piano Mattei”. In un videomessaggio ha citato la “decisione di contribuire, con un impegno finanziario che può arrivare fino a 320 milioni di euro, a uno dei progetti della Partnership for global infrastructure and investment che è la realizzazione del ‘corridoio di Lobito’, il sistema infrastrutturale che collegherà l’Angola allo Zambia, attraverso la Repubblica Democratica del Congo”. Secondo Meloni il progetto offrirà “opportunità anche per le imprese italiane”. La Partnership for global infrastructure and investment è considerata la risposta dei paesi del G7 alla Belt and road initiative di Pechino, nota anche come “nuova via della seta”.

Ma cos’è il corridoio di Lobito? Negli ultimi tempi, dopo la promessa dei nuovi finanziamenti e le notizie dei primi contratti di fornitura, si è tornato a parlarne. Gestito da un consorzio formato da tre multinazionali specializzate nella realizzazione di grandi infrastrutture o nel trasporto delle materie prime (la Trafigura, nata in Svizzera ma oggi con sede a Singapore; la Mota-Engil, portoghese; la Vecturis, belga), è una ferrovia lunga 1.300 chilometri che collega la costa atlantica dell’Angola con le regioni dell’entroterra africano ricche di minerali, quindi il sud della Repubblica Democratica del Congo (Rdc) e lo Zambia. L’obiettivo è favorire l’esportazione di materie prime fondamentali per la la transizione energetica, perché usate, tra le altre cose, nella fabbricazione di batterie per veicoli elettrici o telefoni.

Allo stesso tempo, questo progetto è considerato uno strumento della politica estera degli Stati Uniti, che dopo anni di relativo disinteresse vogliono tornare a far sentire la loro presenza nel continente, anche per contrastare il predominio cinese nel settore delle grandi infrastrutture e dell’approvvigionamento dei minerali per la transizione energetica.

In un reportage dall’Angola pubblicato a gennaio, il quotidiano finanziario statunitense The Wall Street Journal parla quindi del corridoio di Lobito come di un tentativo di Washington “di far deragliare l’influenza cinese in Africa”. La linea ferroviaria già esistente, la ferrovia di Benguela, era stata costruita all’inizio del novecento dai colonizzatori britannici (su concessione di quelli portoghesi) con, bene o male, gli stessi obiettivi di oggi, cioè trasportare minerali. Fu progressivamente abbandonata negli anni settanta e dopo la fine della guerra civile angolana, nel 2002, si cominciò a pensare di ricostruirla.

Fu incaricata l’azienda cinese China Railway Construction Corporation e la ferrovia riprese a funzionare nel 2014. Ma, come fa notare il quotidiano statunitense in un articolo da Luena, una città dell’entroterra angolano vicina al confine con la Rdc, il lavoro non è stato svolto in maniera impeccabile: per esempio, alla stazione dei treni di Luena sembra tutto fermo al 2012 perché i cinesi, quando se ne sono andati, non hanno lasciato la password del computer che controlla i monitor con le partenze dei treni e i costi dei biglietti, che quindi mostrano le stesse informazioni da più di dieci anni.

Nel 2022 l’Angola ha respinto un’offerta cinese per rimettere in sesto la ferrovia e abilitarla al trasporto delle merci, e ha preferito invece affidare una concessione trentennale al consorzio appoggiato da europei e statunitensi. Gli Stati Uniti hanno stanziato 250 milioni di dollari, in gran parte sotto forma di prestiti agevolati. Un altro importante finanziatore è la Banca africana di sviluppo e l’Africa finance corporation, un’istituzione finanziaria africana. Si prevede che il progetto di Lobito arriverà a costare intorno ai 2,3 miliardi di dollari.

Per Washington il gioco vale la candela: come scrive il Wall Street Journal, l’amministrazione Biden ha fatto del rafforzamento dei rapporti commerciali con l’Africa una priorità di politica estera. L’interesse è sempre assicurarsi i minerali necessari alla transizione energetica. L’Rdc è la prima produttrice mondiale di cobalto. Insieme allo Zambia, produce anche rame in quantità. L’Angola possiede 36 dei 51 minerali fondamentali per le tecnologie verdi.

Per il quotidiano statunitense è comunque paradossale che la chiave di volta della strategia statunitense sia l’Angola, un paese governato da un partito, l’Mpla, che è stato per lungo tempo strettamente legato al blocco comunista. Allo stesso tempo il paese è stato, tra il 2000 e il 2020, il primo benefattore africano dei prestiti cinesi per le infrastrutture: in totale ha ricevuto 254 prestiti per un ammontare di 42,6 miliardi di dollari).

Ma, per i diplomatici statunitensi intervistati nell’articolo, va bene così: non siamo più ai tempi della guerra fredda e nessuno a Washington si aspetta che i paesi africani si schierino da una parte o dall’altra nella competizione globale per il potere.

Questo testo è tratto dalla newsletter Africana.

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