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Fine dell’ultima colonia britannica in Africa

Isole Chagos, ex Territorio britannico nell’oceano Indiano (Biot), oggi appartenenti a Mauritius. (Anne Sheppard, Pictures From History/Universal Images Group/Getty Images)

L’ultima colonia del Regno Unito in Africa non c’è più. Il 3 ottobre Londra ha annunciato di aver raggiunto un accordo con il governo di Mauritius riguardo alle isole Chagos, l’arcipelago su cui le autorità britanniche continuavano a esercitare il controllo anche se i mauriziani ne rivendicavano la sovranità. L’intesa riconosce che le Chagos appartengono a Mauritius, anche se tra i due territori la distanza è di 2.100 chilometri, ma permette comunque al Regno Unito di mantenere per 99 anni una base militare condivisa con gli Stati Uniti sull’isola di Diego Garcia.

L’accordo è il frutto di più di una decina di tornate negoziali, cominciate nel 2022 dopo che la Corte internazionale di giustizia (Cig) aveva riconosciuto il merito delle richieste mauriziane. Il 25 febbraio 2019 il tribunale dell’Onu incaricato di dirimere le controversie tra gli stati (su cui abbiamo pubblicato un lungo articolo) aveva deliberato che “il processo di decolonizzazione di Mauritius non era stato legittimamente completato nel momento in cui il paese aveva ottenuto l’indipendenza”, visto che Londra aveva scorporato le Chagos dal resto della colonia. Inoltre, aveva stabilito la Cig, “il Regno Unito aveva l’obbligo di porre fine il più rapidamente possibile alla sua amministrazione dell’arcipelago”.

Nel 1965, tre anni prima che Mauritius ottenesse l’indipendenza, Londra creò il Territorio britannico nell’oceano Indiano (Biot) prendendo un po’ di isole da Mauritius – tra cui le Chagos – e un po’ dalle Seychelles. Era “un’utile finzione”, commenta il giornalista Cullen Murphy sull’Atlantic, che è stata mantenuta attraverso simboli come la bandiera a righe ondulate, i francobolli dedicati (anche se ora l’Unione postale universale li ha vietati), un dominio internet (.io) e un commissioner a Londra.

Su quei sessanta isolotti di palme e fine sabbia bianca sparpagliati proprio nel bel mezzo dell’oceano Indiano, le terre emerse sono poche. Ma sono in una posizione strategica, e questo è bastato perché Londra ci si aggrappasse. Il governo britannico stava infatti discutendo con gli Stati Uniti della costruzione di una base militare e aveva pensato di farlo a Diego Garcia, l’isola più grande delle Chagos. Nei decenni successivi la base è stata molto importante per Londra e Washington, anche perché fu il punto di partenza dei bombardieri statunitensi durante la prima guerra del Golfo (1991), quella in Afghanistan e quella in Iraq del 2003.

Diego Garcia fu scelta anche perché, sostenevano le autorità coloniali britanniche, negli anni sessanta non aveva una popolazione stabile, ma era popolata da “lavoratori a contratto temporanei”. Murphy cita un memo del Foreign office britannico che li definiva, con un linguaggio intriso di disprezzo coloniale, “alcuni Tarzan e un po’ di tuttofare fidati (men Fridays) dalle origini oscure”.

In realtà, alle Chagos vivevano migliaia di persone i cui antenati erano stati portati là duecento anni prima in schiavitù dal Madagascar e dal Mozambico, e che si dedicavano alla pesca, e alla raccolta e alla lavorazione delle noci di cocco. Tra il 1967 e il 1973 più di 1.500 persone furono costrette ad abbandonare le Chagos e a reinsediarsi a Mauritius, alle Seychelles e nel Regno Unito. Inizialmente, spiega Laura Jeffery su The Conversation, “i britannici impedirono a chi era andato in viaggio a Mauritius e alle Seychelles di tornare alle Chagos, poi tagliarono i rifornimenti alle isole e ridussero i posti di lavoro nelle piantagioni di palme da cocco. Infine costrinsero gli ultimi rimasti a imbarcarsi su navi stracolme”.

Sono stati loro, e i loro discendenti, a portare avanti una battaglia, parallela a quella di Mauritius, per il riconoscimento dei loro diritti. Queste persone, racconta Jeffery, anche se vivono in paesi lontani l’uno dall’altro hanno mantenuto un rapporto con le Chagos, condividendo pratiche culturali, come per esempio la musica tradizionale sega.

Alcuni di loro sono diventati il volto di una campagna, come Olivier Bancoult, un elettricista che vive a Mauritius e che oggi presiede il Chagos refugees group. Nel corso degli anni ha portato questa causa all’attenzione dei forum internazionali e di personalità come il papa. Nel giugno del 2022 è stato uno dei pochi autorizzati a tornare a Peros Banhos, una delle Chagos, per una breve visita simbolica (il video), come ospiti del governo di Mauritius.

Altrettanto significativa è stata la testimonianza di Marie Liseby Elysé, che nel 2018 è andata alla Cig per raccontare la sua esperienza personale del trasferimento forzato nel 1973, a bordo di una nave squallida e portandosi dietro solo pochi vestiti, un viaggio terribile che alla fine le causò un aborto.“Gli attivisti delle Chagos si sono battuti per ottenere una compensazione per lo sfollamento forzato e il diritto al ritorno. Hanno ottenuto dei risarcimenti limitati dal governo britannico nel 1978 e nel 1982. Ma non hanno ancora il diritto al reinsediamento. E non è ancora chiaro se lo otterranno con il nuovo accordo” tra Regno Unito e Mauritius, fa notare Laura Jeffery.

All’interno della comunità ci sono pareri contrastanti, e c’è chi critica la clausola su Diego Garcia, così come alcuni sono diffidenti nei confronti delle intenzioni del governo mauriziano. Chiedono di poter dire la loro nel negoziato e, secondo Jeffery, volendo, c’è ancora il tempo per ascoltarli.

Questo testo è tratto dalla newsletter Africana.

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