Questo articolo è uscito il 14 luglio 2006 nel numero 650 di Internazionale, a pagina 30. L’originale era uscito sul settimanale britannico New Scientist con il titolo Ecopolis now.
Cent’anni fa Londra era la città più grande del mondo con una popolazione di 6,5 milioni di abitanti. Oggi è stata superata da Tokyo: la capitale del Giappone, che un secolo fa aveva appena un quarto della popolazione di Londra, è passata al primo posto tra le città più popolose, raggiungendo i 35 milioni di abitanti. La fenomenale crescita di Tokyo è dovuta essenzialmente a un fattore: la migrazione dalla campagna verso la città.
La città asiatica non è l’unica ad aver superato Londra, che oggi con una popolazione di 8,5 milioni non è più neanche tra le prime venti. Ormai lo spostamento dalle campagne alle città avviene in tutti i paesi. Questo fenomeno ha portato a una svolta nella storia dell’umanità: nel novecento la maggior parte delle persone viveva in campagna, e solo un 10 per cento abitava in città; dal prossimo anno le Nazioni Unite prevedono che per la prima volta nella storia la popolazione dei centri urbani sarà più numerosa di quella delle campagne, e la crescita maggiore si registrerà nelle metropoli con più di dieci milioni di abitanti.
La crescita esponenziale delle metropoli ha causato enormi problemi ambientali e sociali. Le città occupano appena il 2 per cento della superficie terrestre, ma consumano tre quarti delle risorse usate ogni anno e producono nuvole di gas serra, miliardi di tonnellate di rifiuti solidi e fiumi di esalazioni tossiche. I loro abitanti stanno sfruttando in modo sconsiderato i terreni e le risorse idriche per produrre cibo, e le foreste per ricavare legno e carta. Londra, per esempio, ha bisogno di una superficie 125 volte più grande della propria per produrre le risorse che consuma. E se anche le nuove metropoli del mondo in via di sviluppo cresceranno come quelle dell’occidente, l’impatto ambientale sarà catastrofico.
Secondo gli scienziati un’impronta ecologica dovrebbe essere di 1,8 ettari di terra a persona perché sia sostenibile, cioè in grado di distribuire equamente le risorse del mondo tra i suoi abitanti. Oggi la Cina rurale ha una media di 1,6, Shanghai di 7 e l’America di 9,7.
Nel modo giusto
Far tornare la popolazione del pianeta nelle campagne non è una soluzione. Con gli standard di vita moderni c’è poca differenza tra le impronte ecologiche degli abitanti delle città e di quelli delle campagne. E anche dividere il pianeta in appezzamenti di terreno in cui tutti possano vivere in modo autosufficiente creerebbe dei disastri, e comunque sarebbe difficile da realizzare. Se dobbiamo difendere la natura e allo stesso tempo soddisfare la richiesta dei paesi in via di sviluppo di una migliore qualità della vita, l’unica soluzione è trovare un nuovo modo di vivere in città. Le dimensioni di una città creano economie di scala in attività come la produzione di energia, il riciclaggio e il trasporto pubblico. Le città dovrebbero essere in parte autosufficienti dal punto di vista alimentare. E se sono costruite nel modo giusto, potrebbero risolvere i problemi legati al boom della popolazione mondiale invece di diventare i parassiti del pianeta.
Pietra, cemento e asfalto fanno salire la temperatura notturna perché assorbono più energia solare
I governi, gli urbanisti, gli architetti e gli ingegneri cominciano a capirlo e progettano nuovi sistemi per rendere ecologiche le metropoli. Il loro approccio si basa su due princìpi: riciclare tutto il possibile e ridurre al minimo l’uso delle automobili. Perciò, oltre a costruire edifici che consumano poca energia, si sta cercando di aumentare l’uso del trasporto pubblico e di modificare l’organizzazione cittadina integrando le zone di lavoro e quelle abitative in uno stesso quartiere in modo da superare la divisione tra aree residenziali, commerciali e industriali. Sui grandi progetti si sta ancora lavorando, ma molte città hanno già fatto qualcosa. Nella nuova sede da 40 milioni di dollari dell’amministrazione comunale di Melbourne, per esempio, giardini pensili e fontane rinfrescano l’aria, turbine a vento e cellule solari generano fino all’85 per cento dell’elettricità usata nell’edificio e collettori di acqua piovana posti sul tetto coprono il 70 per cento del fabbisogno idrico. Il nuovo Reichstag di Berlino ha ridotto del 94 per cento le sue emissioni di anidride carbonica grazie a un olio combustibile vegetale senza carbonio.
A San Diego, in California, i camion della nettezza urbana funzionano con il metano estratto dalle discariche. A Vienna sono state distribuite 1.500 biciclette gratuite. La capitale islandese Reykjavik è una delle pioniere del trasporto pubblico a idrogeno, mentre l’amministrazione di Shanghai ha deciso di finanziare l’installazione di centomila pannelli solari. La metropoli cinese, inoltre, applicherà molte di queste nuove idee nella creazione della prima ecocittà.
Nella direzione sbagliata
In quest’ultimo secolo la maggior parte delle città è andata purtroppo nella direzione sbagliata. Gli urbanisti le hanno progettate pensando che risorse come la terra, i combustibili e il cemento fossero illimitate. I rifiuti, inoltre, sono stati considerati come qualcosa di cui liberarsi a poco prezzo portandoli il più lontano possibile. E peggio ancora, le città sono state progettate intorno alle automobili. Da questo punto di vista nessuno batte gli Stati Uniti, dove l’architetto Frank Lloyd Wright indicò all’America moderna la via da seguire con la sua Broadacre city: una serie di idilliaci quartieri residenziali collegati tra loro da una rete di autostrade. Questo modello si è diffuso in tutto il mondo, da Milton Keynes in Gran Bretagna a Brasília, la capitale del Brasile costruita nel cuore della savana alla fine degli anni cinquanta. Quella generazione di urbanisti “adorava l’automobile e idealizzava la mobilità e la libertà”, spiega Peter Hall, professore di urbanistica e ricostruzione all’University college di Londra. Pensavano che la vita di quartiere fosse finita e che le persone non avrebbero voluto più vivere come una volta. Negli anni sessanta questa tesi fu abbracciata da uno dei teorici più influenti dell’urbanistica, Christopher Alexander, professore di architettura all’università della California a Berkeley. Alexander sosteneva che se i tuoi amici non abitano nella casa accanto, i quartieri diventano non solo inutili ma soffocanti come “accampamenti militari progettati per produrre disciplina e rigore”.
Il guaio è che le città nate sulla base di queste idee mancano della flessibilità necessaria per soddisfare le esigenze dei loro abitanti, cioè non funzionano. Di conseguenza la filosofia di Alexander ha trasformato molte città, soprattutto negli Stati Uniti, in aree disastrate dal punto di vista sociale ed ecologico. Sono sorti quartieri senza vita in cui gli abitanti, per mantenere un’illusione di libertà, sono costretti a usare le automobili, che inquinano e consumano. Le città non si sono mai sviluppate come immaginavano gli urbanisti, spiega Michael Butty dell’University college di Londra, ed è per questo che raramente i grandi progetti hanno avuto successo. La cosa migliore che possono fare gli urbanisti è intervenire in alcuni punti critici e lasciare che gli uomini e il mercato facciano il resto.
Città con più centri
Ormai urbanisti e architetti sono convinti che per migliorare le condizioni sociali e ambientali delle città occorra innanzitutto ridurre l’uso delle automobili. Passare alle macchine elettriche o a idrogeno, infatti, non basta. “Per servire le città congestionate e i quartieri periferici le automobili hanno comunque bisogno di vaste reti stradali, autostrade e parcheggi”, spiega Richard Register, fondatore dell’organizzazione non profit EcoCity builders di Oakland, in California.
Bisogna ripensare la struttura delle nuove città e l’espansione di quelle già esistenti per ridurre al minimo la necessità di usare le auto. Una soluzione è costruire città con più centri, in cui le persone abitino vicino al luogo di lavoro in edifici con molti piani e ben serviti dal trasporto pubblico. In certe parti del mondo questo sta già succedendo, ma alcuni urbanisti non ne sono entusiasti, perché gli edifici con molti piani contrastano con la loro visione di una vita in armonia con la natura. Per essere felici, spiegano, le persone devono poter accedere ogni giorno agli spazi verdi e stare a contatto con la natura. Il conflitto tra ecoefficienza e vita piacevole è dunque inevitabile?
Raffreddare l’aria
Uno studio condotto da Peter Newman e Jeff Kenworthy farebbe pensare che non è così. Secondo i due studiosi c’è un rapporto inverso tra densità urbana e quantità di energia consumata dalle auto per spostarsi nella città. Il consumo di energia per il trasporto è molto più alto in città estese come Houston che non in città più compatte in cui prevalgono costruzioni basse, come Londra o Copenaghen. Ma se aumenta la densità si rischia di incorrere in un altro problema: nelle città con molti abitanti per chilometro quadrato l’aria si riscalda. Pietra, cemento e asfalto fanno salire la temperatura notturna perché assorbono più energia solare e ne riflettono meno di superfici naturali come l’erba, l’acqua e gli alberi. Anche i veicoli, i condizionatori d’aria e le apparecchiature elettriche emettono calore, e gli edifici alti impediscono il passaggio dei venti che lo disperdono. Perciò durante il giorno la temperatura delle città è di solito più alta di un grado rispetto a quella delle campagne circostanti, e di notte può essere superiore anche di sei gradi.
Spesso le baraccopoli hanno una vitalità sociale e dei sistemi ecologici che sono scomparsi in molti ambienti urbani pianificati
Nelle fasce climatiche più calde, dove si trovano molte delle metropoli ad alta densità di popolazione, i condizionatori sono usati per rendere sopportabile la temperatura interna delle case. In molte di queste città, in una giornata calda, l’uso dei condizionatori può consumare più energia di qualsiasi altra attività. Per ridurre questo enorme consumo, le amministrazioni locali hanno studiato delle misure per contrastare il riscaldamento: gli edifici, per esempio, sono progettati in modo da limitare al minimo il passaggio della luce solare attraverso le finestre, aumentare la ventilazione, raffreddare l’aria con le fontane e ridurre l’assorbimento di energia dipingendo di bianco le pareti esterne. Anche piantare alberi lungo le strade può contribuire ad abbassare la temperatura: in una giornata possono evaporare da un albero fino a 400 litri d’acqua, che raffreddano l’aria circostante. A Miami alcuni ricercatori hanno scoperto che in estate le bollette dell’elettricità nei quartieri il cui territorio era coperto per più di un quinto da alberi erano più basse del 10 per cento rispetto a quelli dove non ce n’era nessuno.
Mentre gli urbanisti pensano a come ridurre il consumo di energia nelle grandi città, dall’altra parte ci sono le bidonville, che sono state costruite autonomamente in molti paesi in via di sviluppo da milioni di persone senza l’intervento di nessun urbanista. Queste bidonville soddisfano molti dei criteri fissati da chi progetta le ecocittà: sono ad alta densità di popolazione ma hanno case basse, le strade e i vicoli sono per lo più pedonali, e molti abitanti riciclano i rifiuti della città. Nonostante le carenze sanitarie e di sicurezza, spesso le baraccopoli hanno una vitalità sociale e dei sistemi ecologici che sono scomparsi nella maggior parte degli ambienti urbani pianificati.
Forse potremmo imparare qualcosa dal caos e dalla spontaneità decentrata delle bidonville, e combinarlo con le infrastrutture di un’ecocittà pianificata. Le città senza edifici troppo alti possono comunque avere una densità di popolazione sufficiente a favorire una vita senza automobili e garantire le economie di scala necessarie per il nuovo metabolismo basato sul riciclaggio di qualsiasi cosa: dalle acque di scolo alla plastica per incartare i tramezzini. Al tempo stesso devono restare abbastanza flessibili da consentire alle persone di vivere come vogliono. Il problema è riuscire a mettere al primo posto sia le persone sia l’ambiente.
(Traduzione di Bruna Tortorella)
Da sapere
L’impronta ecologica è un indicatore che misura quanto territorio biologicamente produttivo è usato da una determinata popolazione per ottenere le risorse che consuma e per assorbire i rifiuti che genera. Questo metodo è stato elaborato nella prima metà degli anni novanta dall’ecologo William Rees della British Columbia university.
Questo articolo è uscito il 14 luglio 2006 nel numero 650 di Internazionale, a pagina 30. L’originale era uscito sul settimanale britannico New Scientist con il titolo Ecopolis now.
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