Il guidatore del sanlunche (il triciclo a pedali o a motore onnipresente a Pechino) schiva per un pelo il colpo che s’abbatte sull’abitacolo del suo trabiccolo con un gran rumore di vetri, poi fa una rapida inversione a U che quasi sbalza fuori il passeggero. Il giovane autista grida “mei shir, mei shir”, “non c’è problema”, per tranquillizzare se stesso più che l’esterrefatto cliente straniero. Poi svicola in una via laterale della Pechino notturna e si allontana dai quattro brutti ceffi che hanno cercato di fargli la pelle o per lo meno di scassargli lo strumento di lavoro.
Dopo qualche centinaio di metri offre una sigaretta al passeggero e si ferma per fumare, raccontare, ritrovare un po’ di calma: “Sono i tassisti, vogliono impedirci di lavorare, il governo corrotto li protegge. Anzi no, il governo cinese non è corrotto, i funzionari locali lo sono”.
Così, nella capitale del paese che più investe in trasporti e infrastrutture si consuma una guerra tra poveri e poverissimi all’insaputa dei più, con tanto di derive mafiose.
Fusione in un battito di ali
Qui i trasporti cavalcano la tigre tecnologica e vivono di concorrenza spietata. Uber ha provato a sbarcare in Cina, ma ha trovato un avversario così potente che non c’è stato bisogno di vertenze e normative per tarpargli le ali. È bastato il mercato. E alla fine ha rinunciato ed è stato acquisito dalla Didi Chuxing, soprannominato “l’Uber cinese” ben prima che arrivasse l’Uber vero.
Didi è una app che ti dice quante vetture ci sono nei paraggi e ti permette di prenotarne una, che sia un taxi o un’auto privata. Risparmi tempo e qualche volta anche soldi. Nasce da due servizi preesistenti e concorrenti, supportati dai giganti dell’information technology cinese – Didi Dache (Tencent) e Kuaidi Dache (Alibaba) – che si sono fusi in un battito di ciglia proprio quando Uber è arrivato da queste parti con grandi squilli di tromba.
L’innovazione cinese aiuta il governo nella transizione da ‘fabbrica del mondo’ a economia avanzata
È una storia come molte altre: i cinesi copiano l’idea occidentale, la elaborano secondo caratteristiche locali, la migliorano, beneficiano dell’economia di scala che solo il loro paese sa offrire e poi magari la esportano pure. È successo così anche con i treni ad alta velocità, ma soprattutto con Alibaba, il più grande gruppo di ecommerce del mondo, che in Cina ha sbaragliato eBay e ridotto Amazon a una nicchia.
Di recente anche la Apple ha investito un miliardo di dollari nella Didi Chuxing, i cui vertici hanno annunciato trionfalmente che l’app di ridesharing ha offerto lavoro a più di un milione di “esuberi dell’industria pesante”. Tutto torna: l’innovazione cinese aiuta il governo nella transizione da ‘fabbrica del mondo’ a economia avanzata. E infatti, al G20 che si è appena chiuso a Hangzhou, il presidente Xi Jinping ha insistito sul fatto che solo l’economia digitale garantirà una crescita equilibrata e condivisa all’intero pianeta.
In questo circolo virtuoso in cui gli operai e i minatori diventano autisti, gli utenti sono soddisfatti e la tecnologia cinese conquista il pianeta, la Cina resta però un frullatore in cui primo, secondo e terzo mondo si compenetrano. Ed ecco la guerra a colpi di clava tra autisti certificati e guidatori di sanlunche. Un vecchio tassista pechinese mi ha detto: “Quel Didi è tai mafang”, noi diremmo “una scocciatura”. Lui non ne vuole sapere di una app vocale che lo rimbambisce mentre guida, mastica aglio e ascolta l’autoradio; preferisce ancora il cliente che agita il braccio in mezzo alla strada. E magari s’infuria se un triciclo elettrico glielo soffia sotto il naso. La transizione è ancora lunga.
Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it