La cultura tibetana schiacciata dalla globalizzazione cinese
“Mei wenti”, non c’è problema. “A volte i funzionari di partito ci fanno storie, ma di solito non c’è problema”. Il monaco fa la guardia al dio della fortuna, che si trova in una sala al piano superiore di un tempietto nel complesso monastico buddista di Taersi, nella regione del Qinghai.
Ha le ciglia folte e parla infervorato in mandarino mentre i turisti cinesi gli scorrono attorno un po’ imbarazzati per quello che sentono. Il ritratto del dalai lama è ben visibile dentro la saletta, un’esplicita rivendicazione che però qui, al contrario del resto della Cina, non sembra proibita.
“Noi veneriamo il dalai lama”, prosegue il monaco. “Il panchen lama (la seconda autorità religiosa del buddismo tibetano dopo il dalai lama, scelto da Pechino) è dei cinesi, noi tibetani siamo schiavi ma anche indipendenti”, spiega giocando sull’assonanza tra nuli e duli, termini che suonano simili ma di significato opposto. Il monaco saluta con una forte stretta di mano.
Un cantiere infinito
Mi dicono che qui c’è più libertà che nella regione autonoma del Tibet, dove possedere un’immagine del dalai lama potrebbe costare la galera. Non ho modo di verificarlo, perché i giornalisti stranieri in Tibet non ci possono andare se non con i viaggi organizzati dal ministero degli esteri.
Per questo il Qinghai è noto come “il Tibet dei giornalisti”. Del resto “lui”, il dalai lama, è nato proprio qui, e la sua presenza iconografica è pervasiva. Pende dallo specchietto retrovisore dell’autista di Jianzha, nella prefettura di Huangnan; è in bella vista dietro una chokhor – una ruota da preghiera – nel monastero delle scritture di pietra di Heiri, a 3.700 metri di altitudine nella steppa di Zeku. Appare enorme e incorniciato nel negozio di souvenir del tempio di Tongren. Dappertutto “mei wenti”, non c’è problema.
Forse la normalizzazione del Tibet non passa tanto da quello che si vede nei templi, ma da ciò che si vede attorno. L’altopiano, come il resto della Cina, è un cantiere infinito: un nuovo ponte sullo Huang He, il fiume Giallo, e un complesso circondato da un muro di cinta lì accanto; una strada nuova di zecca a tremila metri di altitudine e alcune casette a schiera che ricordano le nostre periferie metropolitane, dove i nomadi dovrebbero insediarsi “per vivere meglio”. Di fatto, li fanno diventare sedentari così da poterli controllare.
Chiedo a Katarina, figlia di pastori nomadi, che ne pensa: “Si sta meglio in tenda, ma forse d’inverno è meglio la casa”, dice con un sorriso. Si è data un nome comprensibile a orecchie occidentali e parla inglese. Lo insegna alla sua comunità, che vive sulle alture tra Jianzha e Tongren. Vuole andare all’università. E poi? “E poi non so”.
Ladan fa l’autista nella steppa di Zeku. Ha 26 anni, gli incisivi laterali d’oro, baffetti spioventi e il cappello a falde larghe. Non parla mezza parola di cinese, solo tibetano. Così, a volte, porta con sé un amico, Lhundrup, di 19 anni, che un po’ di cinese lo parla, anche se malissimo. Ladan non è andato alle superiori, Lhundrup invece sì.
Il cinese è la lingua del business, della politica, del viaggio nella grande Cina
Entrambi sono figli di nomadi dell’altopiano, ma di quella vita non ne vogliono sapere. Cercano altro, loro, con le bestie e la fatica non intendono sprecare tempo. Tuttavia Ladan ha una sutura fresca sopra l’arcata sopracciliare, frutto – dice – del calcio di uno yak. La ferita però non si vede perché Ladan porta sempre occhiali da sole tipo Ray-Ban, che aggiungono un altro tocco esotico al suo aspetto.
Lui rifiuta la vita tradizionale, però non parla cinese. Ha poche possibilità di liberarsi del mestiere di autista di un pulmino a sette posti che, a dire il vero, guida magistralmente tra l’altipiano a 3.700 metri e le vallate del Loess che degradano verso il fiume Giallo.
L’esito è già scritto
Dall’autoradio ascolta mantra che lo tengono sveglio e gli danno forza; quando incrocia qualche dosso ricoperto di bandiere tibetane da preghiera si toglie rispettosamente il cappello ed è ghiotto di certe merendine confezionate a forma di anatra che arrivano da qualche produzione industriale giù nelle pianure. Sta in mezzo al guado, ma il gap linguistico è un problema apparentemente senza soluzione.
La Cina ha una lunga storia di istruzione bilingue, a partire dalla grande frattura nell’universo han tra i dialetti del nord – poi diventati putonghua, mandarino – e il cantonese. Ma oggi se abbandoni il tibetano (o l’uiguro dello Xinjiang) per il mandarino, la tua lingua madre perde importanza, diventando gradualmente dialetto. E quindi scompare. Se invece rimani legato al fattore identitario e parli ostinatamente la lingua con cui sei stato cresciuto, sei tagliato fuori.
Il cinese è la lingua del business, della politica, del viaggio nella grande Cina. Se ti trinceri sull’altopiano, prima o poi sarai assorbito lo stesso, ma senza i benefici dell’assimilazione. Così tutto scivola impercettibilmente verso un esito già scritto. Questa globalizzazione funziona meglio della repressione.