Le strategie di sopravvivenza di chi viaggia sulla Transmongolica
Salendo sul treno, la speranza un po’ romanzesca è di condividere lo scompartimento con una affascinante dama russa o, al limite, di starmene da solo. Invece mi ritrovo insieme a Gege, una ballerina folk mongola che all’occorrenza può cimentarsi anche in salsa, merengue o danza del ventre, e a due pensionati cinesi che arrivano poco prima della partenza del treno, occupando immediatamente ogni spazio residuo con borse, pacchi e pacchetti.
Nello scompartimento accanto c’è un bambino che urla, tre più in là una cricca di ragazzoni mongoli sui trent’anni, saliti a bordo già ubriachi, che poi cercheranno di attaccare bottone con me e briga con il conduttore cinese della carrozza.
Siamo sulla Transmongolica, tratta Ulan Bator-Pechino. Gege è diretta a Shanghai, quindi all’arrivo prenderà un altro treno. Ha amici che dovrebbero offrirle “un lavoro” per due, tre settimane: “Forse dovrò insegnare danza del ventre a dei bambini”. Tra gli amici, dice, c’è un’altra ballerina sua connazionale che lavora a Macao, la “Las Vegas dell’Asia”, nota destinazione finale nella tratta delle prostitute mongole.
Non voglio trarre conclusioni affrettate. Nel frattempo, lei scopre che gli amici l’aspettano in realtà a Guangzhou: altre nove ore dopo le ventisei da Ulan Bator a Pechino, ma almeno quelle le farà con l’alta velocità. Quanto ai due pensionati cinesi, il signor Qi e il signor X (non parla mai e non si presenta), sono andati a Ulan Bator “per divertimento” e tornano carichi di roba. Il signor Qi dice di avere lavorato per anni in Mongolia, nel settore minerario, e aggiunge che secondo lui a Pechino c’è troppa gente, “bisogna mettere il numero chiuso per i migranti”. Negli interstizi tra un vagone e l’altro ci sono cumuli di carbone appoggiati alle porte d’uscita: servono ad alimentare la stufa infilata in un vano per riscaldare la carrozza e fornire l’acqua calda.
Ecco l’umanità del tardo capitalismo, geografie ed epoche diverse nel frullatore della globalizzazione
Siamo all’ultima tappa del viaggio che questo treno ha cominciato a Mosca, i conducenti lavorano ininterrottamente da una settimana, tutto sbraca. L’odore del carbone assale le narici, meglio andare nel vagone ristorante a guardare il Gobi dal finestrino. Facce dure di mongoli e russi che bevono e parlottano si alternano a quelle di alcuni occidentali che stanno provando il brivido della Transiberiana. C’è il mondo racchiuso in un tubo di metallo semovente, indifferente alla natura circostante. Ecco l’umanità del tardo capitalismo.
Non solo diversi strati sociali, ma anche molte geografie ed epoche diverse nel frullatore della globalizzazione: la ballerina curiosa e piena di speranza, parte della nuova working class mongola che si muove in treno perché non può permettersi l’aereo; i pensionati cinesi figli di un’altra epoca ma in cerca di svago e consumo; i trafficoni che esercitano lungo la direttrice eurasiatica, qualche esemplare del ceto medio europeo, cosmopolita, che prende la Transmongolica perché è un’esperienza da vivere e raccontare. Come il signore che sta leggendo un libro di Tiziano Terzani, mentre cerca probabilmente la ragione di queste ventisei ore di viaggio. È Buonanotte signor Lenin, forse bisognerebbe dirgli che ha preso il treno in direzione opposta.
Arrivati a Zamin-Uud, appena prima del confine con la Cina, il treno entra in un hangar per il cambio dei carrelli: lo scartamento russo-mongolo è ampio, quello cinese è standard. Ottantacinque millimetri di differenza. L’operazione richiede circa cinque ore. Nel frattempo arrivano i controllori doganali.
Tirata anticinese
Il poliziotto mongolo è in borghese, ha con sé un cane nero ed è seguito da un altro agente, robusto e in divisa. Portano via uno degli ubriachi molesti, poi vengono da noi. Quello in borghese punta direttamente i due pensionati cinesi. Fa aprire le loro borse, le ispeziona con cura. Scopre un doppio fondo nella valigia del signor X e comincia a estrarre con enfatica lentezza, senza una parola, dischi verdi di giada e zanne di non so quale animale. Gelido silenzio tombale. La giada si accumula sulle cuccette dello scompartimento. A quanto pare l’agente non parla cinese, così Gege traduce dal mongolo all’inglese, io dall’inglese al cinese e poi viceversa. Il poliziotto dice che i due cinesi devono prendere le loro cose e seguirlo.
Il signor Qi, sempre più agitato, spiega che quelle sono solo “pietre” e che le ha comprate regolarmente. Il poliziotto ridacchia mentre Gege comincia una tirata anticinese: “Fanno sempre così, credono di essere a casa loro, si comportano male”. I due pensionati scompaiono nella notte mongola insieme alle guardie. Gege è contenta perché nello scompartimento da quattro, in due staremo più comodi.
I miei compagni di viaggio – due signori che si lamentano per i migranti a Pechino e che nel frattempo cercano di arrotondare contrabbandando giada e zanne altrui, e Gege la ballerina, con la sua felpa rosa con sopra Minnie e Topolino che dice “ben gli sta” mentre li guarda scendere mestamente dal treno e si prepara a insegnare danza del ventre ai figli e ai nipoti di persone che detesta – sono la versione asiatica di un tipo umano che ben conosciamo anche dalle nostre parti. Sono i delusi della globalizzazione, che però nella globalizzazione sono totalmente immersi e cercano di ritagliare le proprie strategie di vita. Sono brava gente, che sublima le proprie paure abbracciando una mentalità autoritaria e il fascino di “nuovi Khan” di cui l’Asia abbonda: Vladimir Putin, Xi Jinping, Shinzo Abe e Narendra Modi, per nominarne alcuni, sono arrivati ben prima di Donald Trump.