Il lavoro a costo zero nel mondo dell’elettronica di Pechino
Torno in Cina dall’Italia con un computer rimesso a nuovo. “Questo deve durare almeno altri cinque anni”, mi aveva detto il tecnico di Milano mentre installava un disco fisso aggiuntivo, nuova memoria e altre cose utili. Nel costo finale, anche 150 euro di manodopera. Ma ne è valsa la pena, ha fatto davvero un buon lavoro.
Arrivo a Pechino e dopo due giorni il computer non si accende più. O meglio, si accende ma il sistema operativo non parte. Chiamo il tecnico di Milano che prova a guidarmi in un rituale bizzarro per cercare di rianimarlo, niente da fare: “Ci vuole un tecnico”, dice il tecnico.
Così, vado in uno dei posti che più temo e più amo a Pechino. Il 258 dianqi da shijie, ovvero il “mondo dell’elettronica”, che si trova al secondo piano di un caseggiato di fronte al più noto macellaio tedesco della città, nel quartiere di Maizidian. È un mercatone pieno di stand dove ti vendono qualsiasi aggeggio di prima, seconda, terza mano e dove te lo riparano pure. Lo temo perché andare lì significa lasciarci inevitabilmente dei soldi; lo amo perché lì resuscitano i computer morti restituendo speranza ai vivi.
I calcoli sulla roba
Passo un’intera mattinata da Meng Cheng, un ragazzo che ha un bancone simile a decine di altri, con computer e accessori vari in vendita. Me l’hanno raccomandato: “Da lui si servono perfino quelli della scuola tedesca”. Meng apre il computer, estrae il disco rigido, verifica che il contenuto non sia andato perso, mi propone di comprarne un altro, inserisce quello vecchio in una custodia esterna di modo che io non perda il suo contenuto, cambia anche i cavetti dei collegamenti, reinstalla il sistema operativo più aggiornato e ripristina i programmi. Nel conto finale, zero yuan di manodopera.
Mentre il sistema operativo si installa, usciamo a fumare una sigaretta. Mi racconta che viene dalla provincia dello Shandong, vive con moglie e figlio in un monolocale che gli costa “più di tremila yuan al mese”, cioè più di quattrocento euro, che è stufo di Pechino perché è diventata troppo cara: “Fangzi tai gui, fangzi tai gui”, insiste. Cioè, gli appartamenti sono troppo costosi. Però non si fa pagare il lavoro.
Anni fa, un amico italiano architetto che si era trasferito a Pechino di punto in bianco decise di mettersi a vendere vino. Il suo ragionamento era cinico ma lineare: “Mi sono stufato di proporre progetti di cui non frega niente a nessuno, i cinesi non apprezzano il valore immateriale delle cose. E allora vendo ‘roba’ quantificabile, bottiglie con dentro qualcosa che finisce nello stomaco, dieci, cento, mille”.
Anche Meng fa i suoi calcoli sulla “roba” e infatti mi ha venduto il più caro – auspicabilmente buono – hard disk in circolazione e la custodia per conservare quello vecchio, ma non il suo lavoro.
C’è un livello della scala sociale in cui il lavoro, anche se è molto qualificato, continua a essere poco riconosciuto
Ecco perché quando entri a Maizidian esci sempre con qualche aggeggio in più, utile come il mio nuovissimo e velocissimo disco o inutile come un telefono leggermente più potente di quello che hai già: tutti i commercianti/tecnici/riparatori fanno i conti sull’oggetto fisico e non sul lavoro che c’è dietro, cercano di venderti quello.
Molti parlano dell’aumento del costo del lavoro in Cina, ma c’è un livello della scala sociale in cui il lavoro, anche se è estremamente qualificato, continua a essere poco riconosciuto. La nuova società dei servizi, della conoscenza, dell’innovazione tanto voluta dalla leadership di Pechino non dà ancora valore al lavoro intellettuale che si mette all’opera.
C’è ancora una mentalità industriale diffusa, per cui il valore si misura quantitativamente e concretamente, addirittura visivamente, a peso: quanto è rigido un disco rigido. Lavoratori come Meng Cheng fanno del proprio ingegno un optional incorporato nell’oggetto, la carta colorata che lo impacchetta. Non vale di per sé, ma solo per distinguere gli oggetti in vendita sul proprio banco da quelli degli altri.