Il 25 novembre a Busan, in Corea del Sud, è cominciata la quinta e ultima sessione di negoziati per un trattato internazionale contro l’inquinamento da plastica, frutto di un’iniziativa lanciata nel 2022 dal Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente.
L’obiettivo è stabilire una serie di regole legalmente vincolanti per arginare la dispersione della plastica nell’ambiente, che negli ultimi decenni è aumentata esponenzialmente fino a diventare una delle principali minacce per gli ecosistemi e potenzialmente per la salute umana.
I rifiuti di plastica infatti non costituiscono solo una minaccia diretta per le specie animali che li inghiottono scambiandoli per cibo e finiscono per morire soffocati, ma con il tempo si frammentano in minuscole particelle chiamate microplastiche, che sono state rinvenute in tutti gli ambienti della Terra, oltre che nell’acqua potabile, nel latte materno e in molti tessuti del corpo umano, dalle arterie al cervello.
Secondo le stime la dispersione di plastica è destinata a raddoppiare entro il 2050 se non saranno prese misure efficaci per limitarla. Uno studio pubblicato di recente su Science suggerisce che per ridurre l’inquinamento da plastica del 90 per cento sarebbero sufficienti quattro misure.
La più efficace è stabilire una regola secondo cui i prodotti di plastica devono contenere almeno il 40 per cento di materiale riciclato. Le altre sono: limitare la produzione di nuova plastica ai livelli del 2020, aumentare gli investimenti nella gestione dei rifiuti – soprattutto nei paesi poveri, dove gli impianti di riciclaggio sono spesso assenti e la dispersione nell’ambiente è più frequente – e imporre una tassa sugli imballaggi in plastica.
Tutte queste misure fanno parte della bozza stilata nelle sessioni precedenti. Ma finora i negoziati non hanno prodotto risultati concreti, soprattutto a causa della profonda divisione tra i due fronti che si sono delineati.
Da una parte c’è una coalizione di più di sessanta paesi, guidata dalla Norvegia e dal Ruanda, che sostiene l’adozione delle proposte più ambiziose. Dall’altra ci sono gli stati produttori di plastica, in primo luogo la Cina, e gli esportatori di petrolio (la materia prima di base), come la Russia, l’Arabia Saudita e l’Iran, che si oppongono risolutamente ai limiti sulla produzione.
Nei primi giorni di colloqui a Busan la spaccatura si è riproposta e il secondo gruppo di paesi è stato accusato di usare tattiche ostruzionistiche. Il 27 novembre il direttore della conferenza Luís Vayas Valdivieso si è rivolto ai negoziatori avvertendoli che i lavori stanno procedendo troppo lentamente.
Vista la distanza tra i due schieramenti, molti negoziatori e attivisti temono che non sarà possibile arrivare a un accordo condiviso entro la fine del vertice, prevista per l’1 dicembre.
Secondo alcuni invece di cercare un consenso tra tutti i partecipanti sarebbe meglio puntare a un trattato che includa le misure più efficaci e sia sostenuto da una maggioranza di paesi, a costo di lasciare fuori gli stati recalcitranti – a cui dopo l’entrata in carica di Donald Trump potrebbero aggiungersi anche gli Stati Uniti – nella speranza che la pressione morale possa spingerli a ratificarlo in seguito.
Questo testo è tratto dalla newsletter Pianeta
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