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Il suicidio di Matteo Concetti mostra il fallimento del carcere

Darrin Klimek, Getty Images

Il primo suicidio in prigione del 2024 è quello di un ragazzo di 23 anni, ma anche quello di un sistema crudele e fallimentare.

Matteo Concetti era rinchiuso nel carcere di Montacuto ad Ancona per reati legati alla droga e contro il patrimonio. Da quando aveva quindici anni faceva i conti con un disturbo bipolare, e poi con la tossicodipendenza: le due cose, come può succedere, si erano strette in un abbraccio pericoloso; e il carcere, come sempre succede, è intervenuto a peggiorare entrambe.

All’inizio Concetti aveva potuto accedere a una pena alternativa. Lavorava in una pizzeria con l’obbligo di tornare a casa entro una certa ora. Un giorno era rientrato con un po’ di ritardo e il giudice aveva deciso che bisognava mandarlo in carcere. In quello di Fermo l’equilibrio sembrava reggere, ma ad Ancona è precipitato. Da settimane Concetti diceva di stare male. Venerdì 5 gennaio lo aveva ripetuto per l’ultima volta alla madre e agli agenti della penitenziaria durante un colloquio: “Se mi riportano laggiù in isolamento m’ammazzo”. Poche ore dopo si è impiccato nella sua cella nel seminterrato dell’istituto. Gli mancavano otto mesi per uscire.

La madre Roberta Faraglia ha raccontato i suoi ultimi anni, e le sue ultime ore, con parole che aiutano a capire meglio cos’è la galera e come può far deragliare una vita. “Quando aveva quindici anni”, ha detto a Repubblica, “era un ragazzino incontenibile, sempre agitato, gli hanno diagnosticato un disturbo bipolare, poi è arrivata la droga”. Concetti è stato due anni in comunità, ma non è bastato. “Lo hanno buttato” in carcere, dice la madre, perché durante la misura alternativa aveva “sgarrato di un’ora” l’obbligo di rientrare a casa dal lavoro.

Ad Ancona aveva aggredito un agente della polizia penitenziaria e lo avevano messo in isolamento. “Aveva paura di stare in quella cella da solo senza finestre”. Faceva così freddo che “era costretto a portare due paia di pantaloni”. Eccoli, i dettagli in cui si svela la vita dei detenuti: pareti senza finestre e mai abbastanza vestiti per scaldarsi.

“Stava male, si era anche procurato tagli alle braccia”, ha detto Faraglia al Messaggero. Dopo il colloquio del 5 gennaio la donna ha raccontato di aver chiesto aiuto a tutti: agli agenti, al cappellano, a un infermiere del carcere, agli avvocati. Uscita dall’istituto è riuscita anche a telefonare alla senatrice Ilaria Cucchi. Ma non è servito a niente: le sbarre di ogni carcere sono arrugginite dalle occasioni perse, ignorate, fallite. “Hanno lasciato che si suicidasse”, ha concluso Faraglia.

Uno specchio

Nella storia di Concetti si specchia lo stato delle prigioni italiane, ma se si guarda bene c’è anche il profilo, o l’ombra, della politica del paese.

Le ragioni che spingono una persona a farsi del male o a suicidarsi sono sempre complesse. Alcune sono intime, certe cliniche, altre hanno a che fare con il contesto. E il contesto oggi in Italia è una miscela pericolosa di condizioni invivibili dentro le carceri, e indifferenza o accanimento fuori dalle loro mura.

Cominciamo dagli istituti penitenziari. Oggi dentro ci sono più di 60mila persone, ma i posti disponibili sono 47mila. La parola con cui si descrive questa situazione è sovraffollamento, ma rende poco l’idea: significa che può capitare che nei nove metri quadrati di una cella singola sia rinchiuso più di un detenuto. E che quindi, visto che negli ultimi anni le sezioni a custodia aperta – cioè quelle in cui le celle non sono lasciate sempre chiuse – sono diminuite, diverse persone passano circa venti ore al giorno in gabbie più piccole di quelle previste per legge negli allevamenti di maiali. Per molti l’unica alternativa sono le quattro ore d’aria in spazi circondati da mura così alte che è impossibile intravedere perfino un albero. “L’aria aperta del carcere è un’aria chiusa”, ha scritto Adriano Sofri.
In carceri vecchie, sovraffollate e senza alternative alle celle chiuse, spesso le persone sono così disperate che finiscono per farsi del male da sole. “Gli esseri umani arrivano a mutilarsi perché il carcere è già penetrato nei loro corpi”, ha spiegato lo scrittore britannico John Berger.

Il carcere è diventato la risposta a tutto: alla malattia psichiatrica, alle dipendenze, alla povertà

Quasi il 10 per cento dei detenuti, secondo Antigone, ha problemi psichiatrici gravi, e circa uno su tre fa uso di antipsicotici o antidepressivi. Nonostante questo, l’associazione ha calcolato che le ore di aiuto psichiatrico sono in media circa dieci a settimana ogni cento detenuti, e diciotto quelle per il sostegno psicologico. Mancando gli esperti di salute mentale, si prova a mettere delle toppe con le pillole. Al 42,4 per cento delle persone in carcere sono dati dei sedativi. Una su cinque è in cura per qualche dipendenza dalle droghe.

Secondo un’inchiesta del giornale Altraeconomia è di “due milioni di euro la spesa in psicofarmaci somministrati nelle strutture detentive italiane nel 2022”. Sono soprattutto antipsicotici: “Il 60 per cento del totale, prescrivibili per gravi patologie come il disturbo bipolare o la schizofrenia e utilizzati cinque volte di più rispetto all’esterno”. Uno dei motivi di questa loro enorme diffusione potrebbe essere il fatto che sono impiegati per calmare le persone, al posto degli ansiolitici, che danno più dipendenza.

“Stiamo sedando dei disturbi o dei disturbanti?”, si è chiesto Fabrizio Starace, presidente della società italiana di epidemiologia psichiatrica.

La malattia psichica non è più un tratto marginale delle carceri, ma un elemento centrale all’interno degli istituti. Una delle prove è l’alto numero di detenuti che si uccidono: 84 nel 2022, 64 nel 2023. L’associazione Antigone ha calcolato che in prigione “i casi di suicidi sono oltre dieci volte in più rispetto alla popolazione libera”.

Molte delle persone più fragili, come mostra la storia di Concetti, in cella non ci dovrebbero proprio stare, o almeno dovrebbero essere trattenuti in reparti specifici per detenuti con malattie psichiche. Tuttavia, in molti istituti penitenziari non ci sono, come per esempio ad Ancona. Dalla chiusura nel 2017 dell’ultimo ospedale psichiatrico giudiziario (Opg), chi ha disturbi mentali e compie reati dovrebbe finire nelle residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza (rems). Ma le rems sono poche e con pochi posti, per cui nelle 31 strutture di questo tipo i pazienti sono 632, quelli in lista d’attesa 675, e quelli in carcere con problemi anche gravi 42.

Il carcere è diventato la risposta a tutto: alla malattia psichiatrica, alla dipendenza da alcol o droghe, alla povertà.

La politica

Di fronte a tutto questo la politica ha due scelte. Puntare su pene alternative, sul rafforzamento delle comunità e delle reti sociali (fatte da operatori del terzo settore, uffici del lavoro funzionanti, volontari, esperti di dipendenze e salute mentale) per rispondere sul territorio a richieste di aiuto e mediazione di conflitti, oppure affidare tutto alle manette. Negli anni, la risposta ha virato sempre di più verso un populismo penale sfrenato e compiaciuto di sé, fino al culmine dell’ultimo governo.

In poco più di un anno al potere, l’esecutivo presieduto da Giorgia Meloni ha moltiplicato i reati e inasprito le pene di quelli già esistenti. Per cui ora rischia il carcere chi organizza dei rave, chi blocca una strada, chi scrive sui muri di una caserma. Le celle si riaprono per le donne incinte o che hanno figli con meno di un anno, se hanno commesso reati. Il daspo urbano, cioè l’allontanamento obbligatorio da una città, potrà essere applicato anche a chi ha quattordici anni, mentre prima non era possibile sotto i diciotto.

Il ministro della giustizia Carlo Nordio ha abituato chi lo segue al pendolo delle sue dichiarazioni, che un giorno oscilla verso il garantismo e quello dopo gli fa ammettere: “Il nostro governo ha aumentato i reati e le pene contro alcuni reati odiosi. Ma per una certa percentuale di detenuti si tratta di reati minori, e l’espiazione delle pene non dovrebbe essere affidata alle sbarre, ma a misure alternative”.

Tuttavia, le misure alternative come i domiciliari, il lavoro fuori dagli istituti penitenziari e la semilibertà sono soluzioni che coinvolgono pochi detenuti e non riescono a diminuire il sovraffollamento.

Prigioni meno affollate, in cui ai detenuti fosse permesso di telefonare o incontrare i propri familiari non una sola volta a settimana, renderebbero la pena meno umiliante e vendicativa per tutti, e darebbero ai più fragili un filo a cui aggrapparsi in caso di bisogno. Istituti in cui il lavoro esterno coinvolgesse la maggioranza dei detenuti e non meno del 5 per cento, come succede nella realtà, favorirebbero il loro reinserimento. Percorsi di cura o strutture diverse e più adatte per chi ha dipendenze e disturbi psichici consentirebbero di trattenere qualche vita invece di lasciarla andare o imbottirla di pillole.

Ma per fare tutto questo bisognerebbe scarcerare la società, e le teste di chi la governa.

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