Calma apparente in Birmania un anno dopo il golpe
Mentre a Yangon, l’ex capitale birmana, la vita si assesta in una surreale “nuova normalità”, una feroce campagna dell’esercito contro il dissenso sta alimentando la crescita delle forze di difesa popolari, con ricadute negative sulla capitale commerciale e nelle zone rurali che si estendono fino ai confini del paese. E molto oltre. Nel centro della città aleggia una strana calma, che a prima vista nasconde la paura e la violenza che dominano buona parte della Birmania. Di giorno i centri commerciali sono affollati, mentre la sera ristoranti e cocktail bar alla moda, con nomi come MadameEm’s e Olive & Twist, sono il nuovo punto di ritrovo per incontri romantici o tra amici. Ma solo fino allo scattare del coprifuoco, in vigore tra le 22 e le 4 del mattino.
Sotto la superficie, la vita in città è molto più complessa. Scuole e università hanno riaperto dopo lunghe chiusure dovute alla pandemia e alle imponenti proteste contro il colpo di stato militare del 1 febbraio 2021. Ma solo il 40 per cento circa degli studenti partecipa alle lezioni. Si stima che 126mila insegnanti – circa la metà del corpo docente del paese – siano stati licenziati dal governo per aver partecipato al movimento di disobbedienza civile lo scorso anno o abbiano lasciato il lavoro.
Per i consumatori, i prezzi di prodotti d’importazione come olio da cucina, cioccolato e vino sono cresciuti perché il tasso di cambio della valuta locale, il kyat, si è indebolito di più del 30 per cento dallo scorso febbraio. Da allora le tariffe dei taxi sono quasi triplicate a causa dell’impennata del prezzo del carburante. Ci sono code interminabili ai bancomat e limiti rigidissimi alla quantità di denaro che si può ritirare. La connessione a internet e l’elettricità vanno e vengono. E ora, alla vigilia dell’entrata in vigore del divieto di usare le reti private virtuali (vpn) per accedere ai siti internet, le forze di sicurezza fermano le persone per controllare i telefoni e imporre pesanti multe ai trasgressori.
Sotto la superficie
Una chiara caratteristica della vita a Yangon, dice chi ci abita, è l’implicito senso di minaccia, nascosto dall’apparenza di una nuova normalità. Il 25 gennaio il regime ha avvertito che chi avrebbe partecipato il 1 febbraio allo “sciopero silenzioso” indetto per commemorare il primo anniversario del colpo di stato, tenendo chiusi i negozi o rimanendo a casa, rischiava il carcere. I mezzi d’informazione di stato riferiscono ogni giorno di “terroristi” arrestati o ex deputati o funzionari del deposto governo guidato dalla Lega nazionale della democrazia (Nld) incriminati. Le campagne militari che hanno preso di mira villaggi e zone rurali sono descritte come “operazioni di ripristino dell’ordine”.
A rafforzare il disagio locale c’è la crescente minaccia di bombe e omicidi. Dopo il golpe, a Yangon ci sono state almeno 121 esplosioni, per lo più rivendicate da attivisti antigovernativi, mentre gli “squadroni della morte” hanno ucciso o ferito molti funzionari, presunti informatori dell’esercito e altre persone legate alle forze armate. La frequenza delle esplosioni in aumento riflette la crescita delle Forze di difesa del popolo (Pdf), nate dopo il colpo di stato, nelle città e nelle zone rurali del paese. Alla fine di gennaio delle 651 formazioni delle Pdf esistenti su scala nazionale, 83 erano attive a Yangon. Le bombe hanno preso di mira soprattutto edifici statali, tra cui uffici amministrativi e commissariati di polizia. Ogni attacco è immancabilmente seguito dall’apparizione di truppe pesantemente armate che passano al setaccio l’area e talvolta portano via alcuni abitanti terrorizzati per sottoporli a interrogatori.
“Sotto la superficie c’è, tra gli abitanti di questa città, la sensazione che quando si esce di casa si sta rischiando la vita”. A dirlo è Hein Zarni, un impiegato a Yangon. “Si ha paura di ritrovarsi in mezzo a un’esplosione o a uno scambio di colpi tra forze della resistenza e soldati, o semplicemente di essere fermato e arrestato senza motivo. Le strade sono trafficate, ma gli occhi delle persone sono spaventati”. Nonostante gli inconvenienti e le ansie, gli abitanti della città continuano a vivere stoicamente.
Gli effetti di quest’aumento della violenza si fanno sentire soprattutto fuori dalle grandi città, nel nord e nel nordest, vicino alla Cina, a ovest vicino all’India e nei turbolenti stati del sudest, al confine con la Thailandia. Nel centro della Birmania, le regioni un tempo pacifiche di Chin e Sagaing sono attraversate da conflitti, con testimonianze che parlano di interi villaggi distrutti e atrocità da parte delle truppe, compresi civili dati alle fiamme e uccisi. Secondo l’Associazione di assistenza ai prigionieri politici, un ente senza fini di lucro, nell’ultimo anno le forze di sicurezza hanno ucciso più di 1.500 civili e ne hanno arrestati 11.800. Se si includono soldati e combattenti delle Pdf, secondo altre indagini le vittime del conflitto sono quasi dodicimila.
Negli stati del Kayin e del Kayah, dove si trovano alcuni dei più antichi gruppi etnici armati come l’Unione nazionale Karen (Knu), le operazioni militari hanno preso di mira i villaggi attraverso bombardamenti aerei, droni e truppe di terra, generando all’incirca 160mila sfollati. Secondo le agenzie delle Nazioni Unite, dal 1 febbraio 2021 almeno 406mila persone hanno lasciato le loro case a causa delle attività militari. Il 27 per cento nel solo mese di gennaio. Questo porta il numero totale di sfollati interni a 776mila. Molti vivono in rifugi improvvisati e soffrono per la fame e le malattie.
Entro la metà del 2022 quasi metà della popolazione, 54 milioni in tutto, vivrà sotto la soglia di povertà
Anche l’economia è in difficoltà. Si prevede che quest’anno la Birmania avrà una crescita minima o pari a zero, dopo un terribile calo del 18 per cento nell’anno fiscale che si è chiuso nel settembre 2021. L’Onu ha avvertito che entro la metà del 2022 quasi metà della popolazione, 54 milioni in tutto, vivrà sotto la soglia di povertà, quasi doppio rispetto ai livelli precedenti al colpo di stato. Si prevede che nello stesso periodo la povertà nelle città triplicherà. Con la crescita degli ultimi anni ormai spazzata via, l’economia sembra tornare ai giorni bui del regime militare duro, prima che il paese si aprisse al mondo nel 2011: un periodo che ha aperto la strada a riforme economiche e sociali, a un aumento degli investimenti esteri e a una crescita economica media del 7 per cento annuo tra 2011 e 2016.
Oltre il confine
Le dure condizioni con cui oggi deve fare i conti la Birmania sono tristemente evidenti al confine tra il paese e la Thailandia, negli stati Kayin e Kaya. Qui gli attacchi dell’esercito vanno avanti dalla fine del 2021 e hanno generato un’ondata di profughi. La maggior parte si è rifugiata nella giungla birmana, spesso senza accesso adeguato a cibo e acqua. Altri sono scappati in Thailandia in seguito a feroci attacchi come quello della vigilia di Natale nella cittadina di Hpruso, nel Kayin, nel corso dei quali i soldati hanno ucciso e bruciato 35 civili, tra cui bambini e due volontari.
Mae Sot, città tailandese vicina al confine, è un vivace microcosmo in cui s’intrecciano resistenza, sfollamento e disperazione. Questa città tentacolare, dagli edifici bassi e con circa sessantamila abitanti, si trova appena al di là del fiume Moei rispetto al Kayin, lo stato dell’etnia karen. Sette ore di macchina più a nord, lungo strade tortuose, si trova Mae Hong Son, adiacente al Kayah, dove quasi la metà della popolazione di 300mila abitanti ha dovuto abbandonare casa.
L’impatto delle operazioni militari sulla popolazione civile terrorizzata è percepibile dalle sponde del fiume Moei, vicino a Mae Sot. Le famiglie si raccolgono sotto ripari improvvisati e teli di plastica. Secondo le stime delle Nazioni Unite, gli sfollati nel solo Kayin alla fine di gennaio erano 75mila. In mancanza di servizi statali e di accesso agli aiuti internazionali, per l’alloggio, il cibo e ogni altra forma di assistenza i profughi devono affidarsi alle organizzazioni locali.
Dall’inizio del 2021 la Knu e altri gruppi affiliati hanno contribuito ad aiutare i profughi. “Abbiamo allestito siti temporanei per prenderci cura di decine di migliaia di sfollati”, spiega Saw Taw Nee, che dirige il dipartimento affari esteri della Knu. “Ci eravamo impegnati molto nel processo di pace, ma otto anni dopo la firma dell’accordo, data la situazione, riteniamo che non abbia senso collaborare con i militari. Vedremo invece una maggiore collaborazione con i combattenti della resistenza”. La cosa è risultata evidente sul terreno dopo che negli ultimi mesi gli attacchi militari si sono intensificati. I diversi gruppi di opposizione al regime stanno cominciando a coordinare le operazioni armate in maniera più serrata, e sembra che stia emergendo una struttura di comando che potrebbe unirli tutti.
La Thailandia risente molto del conflitto. Da quando i militari birmani hanno cominciato ad attaccare nel Kayin e nel Kayah, i profughi hanno attraversato il fiume in entrambe le direzioni, con un picco di circa diecimila persone scappate a gennaio nelle zone vicino a Mae Sot. Mentre si moltiplicano gli appelli per una più decisa azione internazionale, agenzie di assistenza umanitaria e governi come quelli di Stati Uniti e Norvegia insieme alla Thailandia stanno ipotizzando la creazione di un “corridoio umanitario” in territorio birmano. Bangkok non si è espressa pubblicamente, anche se funzionari del paese ammettono in privato il timore d’inimicarsi il paese vicino. Ma, riferisce un diplomatico occidentale al corrente dei negoziati, “crediamo che possa accadere presto”.
L’uomo ha chiuso la sua attività e venduto i suoi averi per andare ad addestrarsi a combattere contro i militari
Negli stati più colpiti si trova un numero crescente di combattenti delle Pdf, molti dei quali arrivano dalle zone urbane per ricevere sostegno e addestramento dalle forze armate etniche come la Knu e il Karenni national progressive party. Molti combattenti sono attivi oggi a fianco dei gruppi armati etnici nel sudest e nel cuore delle aree di etnia bamar, intorno alle regioni di Sagaing, Chin e Magway. Un paio di settimane fa, dentro alcune casupole sicure lungo il confine, sette combattenti delle Pdf ci hanno raccontato le loro esperienze e i loro sogni per il futuro. Di età compresa tra i venti e i 39 anni, provengono da ambienti diversi: liberi professionisti, commercianti, imprenditori digitali e operai di fabbrica. Alcuni avevano famiglie che hanno portato nelle “zone liberate” all’interno delle aree controllate dai gruppi etnici. Le loro opinioni sul Governo di unità nazionale (Nug, il governo ombra formato da esponenti dell’opposizione) sono molto varie. Alcuni hanno confessato la delusione per la mancanza di sostegno finanziario e fornitura di armi da parte del Nug, mentre altri hanno espresso lealtà alla causa e ammirazione per Aung San Suu Kyi, agli arresti da ormai più di un anno. Tutti, però, sono concordi nell’ardente desiderio di spodestare il regime militare.
Un giovane combattente, Akar, sfoggiava un ritratto di Suu Kyi tatuato sul braccio, mentre altri due avevano la sua foto come sfondo dello schermo dei loro telefoni. “È la nostra madre”, ha detto Akar, mostrando il braccio. “Stiamo percorrendo una strada difficile verso la rivoluzione, le nostre vite sono sconvolte”, ha raccontato Thipa, 37 anni, che prima di unirsi alla resistenza gestiva un piccolo negozio di musica a Yangon. “Forse qualcuno farà marcia indietro, ma noi torneremo in Birmania”. L’uomo ha chiuso la sua attività e venduto i suoi averi per andare ad addestrarsi a combattere contro i militari.
Thipa e Akar, che ha vent’anni, in un primo momento si erano addestrati alla guerriglia urbana con un gruppo armato etnico del nord. Dopo essere tornati a Yangon per delle missioni “urbane”, si sono ritrovati nella lista dei terroristi ricercati dall’esercito, e hanno deciso di unirsi alle Pdf nel sudest.
“Stiamo creando una forza che possa reggere il confronto con l’esercito”, dice Akar, “ma abbiamo bisogno di maggiore sostegno. Sappiamo che questa lotta finirà solo con una rivolta popolare. Dobbiamo vincere”. Il loro amico Mo We (nome di fantasia), che ha 29 anni e faceva il marinaio su navi commerciali, si era unito alle proteste vicino a Yangon all’inizio di aprile, armato solo di pietre. Il 9 aprile i soldati hanno falcidiato i manifestanti barricati dietro a sacchi di sabbia, uccidendo almeno 82 persone. “Ho avuto fortuna. Siamo scappati tutti ma alcuni miei amici quel giorno sono stati uccisi o arrestati”, ricorda. Quando è arrivato in un’area controllata dalla Knu grazie ad alcuni contatti del posto, inizialmente ha imparato a usare gli esplosivi e a compiere azioni di sabotaggio nelle città. Ma, dice, “mi sentivo un terrorista a maneggiare bombe, così mi sono spostato in una zona dove potevo semplicemente imparare a combattere”. Come molti dei suoi compagni, Mo We spera di prendere in prestito il denaro necessario a comprarsi una pistola. La sua unità delle Pdf, forte di 120 persone, ne condivide trenta, facendo i turni nei combattimenti.
“A cambiare i giochi stavolta sono i giovani, le forze nuove, sono loro che combattono questa rivoluzione sulla linea del fronte”
In un appartamento vicino, Jack e Myat Thu (nomi di fantasia), entrambi di 23 anni, si sono presi un momento di pausa dalla guerra. Sono diventati amici dopo essere entrati nella stessa unità delle Pdf nel Kayn, vicino al luogo dell’attacco militare della vigilia di Natale. Jack è laureato e ha lavorato in passato in un’azienda di hi-tech, mentre Myat Thu ha abbandonato il liceo per tentare una carriera musicale. Hanno comprato armi e strumenti tecnologici e hanno lavorato con i droni da combattimento, sostenendo la collaborazione della loro unità con la Knu. “Il nostro obiettivo è creare una vera democrazia nel nostro paese. Ci aspettavamo di più dal Nug, ma ci fidiamo ancora di Aung San Suu Kyi. A ogni modo, continueremo a combattere”.
“Ci sono fondamentalmente tre tipi di combattenti delle Pdf”, ci dice un ricercatore birmano in Thailandia, “quelli totalmente disillusi, che vogliono andarsene e cercano una sistemazione in un altro paese; quelli che si stanno interrogando sul da farsi: sono stanchi, vogliono riposarsi e si chiedono se sia il caso di tornare; altri che si sentono in un vicolo cieco, hanno poche alternative ma continuano a sperare. Ma ci sono molti che hanno spirito combattivo ed energia, e credono nella rivoluzione. Vengono in Thailandia per avere una tregua e cure mediche, e poi tornano in Birmania per combattere”.
Abbattere il regime
Le divergenze sul futuro della Birmania tra le forze d’opposizione e quelle dalla parte dell’esercito, e all’interno dello stesso movimento di resistenza, hanno generato opinioni nettamente contrastanti. Alcuni vedono la guerra come una via per riportare al potere l’Nld, che nel novembre del 2020, pochi mesi prima di essere estromesso con il golpe, aveva stravinto le elezioni politiche. Altri la considerano una vera e propria rivoluzione, o quel che Duwa Lashi La, presidente del Nug, ha definito “una seconda lotta per l’indipendenza” dopo la fine del dominio coloniale britannico nel 1948. È d’accordo Matthew Arnold, ricercatore indipendente esperto di Birmania: “Non è una guerra binaria per riportare al potere l’Nld, è una rivolta nazionale decentralizzata”.
Thinzar Shunlei Yi, nota attivista ed ex conduttrice televisiva di Mizzima Media, che lo scorso aprile si è rifugiata nella giungla, riconosce che “a cambiare i giochi stavolta sono i giovani, le forze nuove, sono loro che combattono questa rivoluzione sulla linea del fronte”. Tutte le anime della resistenza sono d’accordo nel dire che un anno dopo aver preso il potere l’esercito non è riuscito a consolidare il suo controllo sul paese e sull’economia. Questa certezza sta dando maggiore slancio a quel che gli attivisti chiamano “rivoluzione primaverile”.
Anche se inizialmente divisi sull’uso della violenza, la maggior parte dei leader della resistenza ritiene che l’unica via d’uscita sia continuare a lottare. C’è una differenza, tuttavia, tra chi crede che un esercito indebolito si siederebbe al tavolo dei negoziati e chi sostiene che l’obiettivo debba essere il rovesciamento del regime. “Se tutte le forze rivoluzionarie sapranno unirsi, credo che vinceremo”, dice Thee Swe Win, un attivista che aiuta i profughi vicino al confine tra Thailandia e Birmania. “So che ogni conflitto finisce grazie al dialogo. Ma in questo caso può esserci un dialogo solo dopo aver abbattuto il regime. Questa rivoluzione deve mettere fine alla dittatura”.
(Traduzione di Federico Ferrone)
Questo articolo è stato pubblicato su Nikkei Asia.
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