Lo sguardo controcorrente di Robert Frank sui Rolling Stones
C’è una scena di Cocksucker blues in cui un componente dell’entourage dei Rolling Stones, viaggiando sull’aereo privato della band, legge una copia del libro motivazionale Living poor with style, pubblicato nel 1972 da Ernest Callenbach. È uno dei tanti momenti di dissonanza cognitiva mostrati dal documentario, codiretto da Daniel Seymour e dal fotografo e regista Robert Frank, morto il 9 settembre scorso a 94 anni.
Se vogliamo giudicare un buon documentario dalla coesione e dall’empatia che suscita, allora Cocksucker blues è pessimo: è frammentario, distorto, incoerente, sembra voler minare la propria autorità ogni volta che ne ha la possibilità. “Fatta eccezione per le parti musicali, gli eventi mostrati nel film sono immaginari, nessuna rappresentazione dei fatti o delle persone è reale”, si legge in un cartello all’inizio del film. Un documentario immaginario, insomma. L’idea è senza dubbio intrigante.
Ma Cocksucker blues non è affatto pessimo, nonostante la decostruzione visiva di Frank. È un capolavoro fuori fase che si nutre del paradosso. Girato nel 1972, mentre gli Stones portavano in tour il leggendario Exile on Main St., il film riflette lo scompiglio al centro dell’album, costruendo nel frattempo un vocabolario cinematografico tutto suo. L’audio delle registrazioni dei concerti fa da sfondo alle scene che mostrano la band e chi sta intorno, tra passeggiate senza meta, sesso e droghe varie, riprese con angolazioni inclinate e ipnotiche.
Quasi ogni fotogramma è uno splendido ritratto degli Stones a petto nudo. Eppure Frank riesce a demistificare anziché mitizzare Mick Jagger, Keith Richards, Mick Taylor, Bill Wyman e Charlie Watts, tirandoli giù dal loro trespolo dionisiaco. Gli Stones sono mortali, fragili, sporchi, approssimativi, trasandati. “È uno dei più bei film sul rock che abbia mai visto”, ha dichiarato Jim Jarmusch. “Ti fa pensare che non vorresti mai essere una rock star”.
Probabilmente è anche per questo che nel 1972 i Rolling Stones hanno presentato un esposto contro Frank nel tentativo di bloccare l’uscita di Cocksucker blues. La vicenda si è conclusa con un accordo piuttosto bizzarro: il film può essere proiettato solo quattro volte all’anno, e solo in presenza di Frank. Di sicuro la band non ha protestato per il titolo, tratto da una delle composizioni oscene, anche se inedite, di Jagger. Probabilmente a dargli fastidio è stata la natura stessa del film.
Gli Stones volevano evidentemente essere considerati ribelli, ma solo se potevano controllare questa immagine. Cocksucker blues mostra un lato della band
poco lusinghiero, anche dal punto di vista acustico. È un banchetto chiassoso per le orecchie: pieno di suoni d’ambiente, raschiature, borbottii, rumori che di solito sono eliminati in postproduzione o evitati in fase di ripresa. Ma così come per le immagini, c’è del metodo nella follia sonora di Frank. I collage sonori sfumano in viscerali registrazioni dei concerti, compresa una feroce esibizione sul palco con Stevie Wonder come ospite d’onore. Se gli Stones hanno osteggiato il film per vanità, hanno commesso un errore (alla morte di Frank la band ha rilasciato una commovente dichiarazione di cordoglio).
Troppe immagini
Oltre a permettere a Frank di filmarli per un documentario, gli Stones hanno scelto come copertina di Exile una foto rimasta fuori da The americans, il pionieristico lavoro di Frank diventato un libro nel 1958. The americans è un tour de force nella vita di tutti i giorni, dove il quotidiano raggiunge la grazia dell’arte classica, e i superbi contrasti tra i neri, i bianchi e le sfumature di grigio rendono la luce un oggetto di contemplazione.
Nei soggetti di Frank c’è la nobiltà delle statue. Non la povertà vissuta con stile, solo la realtà, che illumina e allo stesso tempo riveste di ombre le cose. Il libro, dove risuona l’eco della beat generation e ha la prefazione di Jack Kerouac, ha contribuito a fissare la sensibilità e il linguaggio visivo della controcultura. Frank era lì all’inizio di quello che sarebbe diventato il movimento hippie e c’era anche alla fine, quando ne ha catturato il declino, personificato dagli Stones. È significativo che tra tutte le foto di Frank, Jagger e gli altri abbiano scelto per la copertina di Exile proprio Tattoo parlor, un collage di immagini che ritrae circensi e fenomeni da baraccone, come se fossero intrappolati in una gabbia.
“Oggi ci sono troppe immagini, troppe macchine fotografiche”, aveva detto Frank a Vanity Fair. “Siamo tutti osservati. È ridicolo. Come se ogni azione meritasse di essere immortalata. Niente è veramente speciale. È solo la vita. Se tutti i momenti vengono fotografati non resta più niente di bello, e forse la fotografia smette di essere arte. O magari non lo è mai stata”. Per quanto possa sembrare cinica questa sua posizione, in realtà contiene un certo idealismo stridente. Frank è stato un pioniere dell’immagine – fissa e in movimento – come strumento per documentare non solo il bello, ma anche l’effimero, il trasgressivo, lo sgradevole. Sapeva che una composizione attenta può creare uno stato estremamente naturalistico, e che l’occhio può trovare la verità anche nel banale.
Sapeva che con una composizione meticolosa poteva mostrare il lato più autentico di una situazione, e che l’occhio può trovare la verità anche nel banale.
In una delle scene più impressionanti di Cocksucker blues, gli Stones sono del tutto assenti. Bianca Jagger, all’epoca moglie di Mick, è seduta con un’espressione indecifrabile mentre fuma una sigaretta e fa suonare ripetutamente un carillon. In queste immagini il simbolismo di Frank è al suo meglio. Trovandosi al centro dell’edonismo dei Rolling Stones, ma allo stesso tempo estranea al suo lato più dissoluto, Bianca cerca di trovare sollievo nel carillon, l’unico oggetto sonoro che può controllare e che non la abbandonerà per un capriccio.
È un momento incredibilmente intenso, da cui traspare la grandezza delle immagini di Robert Frank, al contempo iconografiche e iconoclaste. Il mondo è pieno di belle foto, sembra volerci dire Frank, ma l’arte si trova ancora in quello che scegliamo di guardare.
(Traduzione di Andrea Sparacino)
Questo articolo è uscito su The Atlantic. Leggi la versione originale. © 2019. Tutti i diritti riservati. Distribuito da Tribune Content Agency.