Fuga da un marito violento in un Sudafrica sotto lockdown
Lee-Ann Jephtas* finge di dormire, ma è in attesa. In Sudafrica è il venticinquesimo giorno di lockdown, decretato dal governo il 27 marzo per arginare la diffusione del nuovo coronavirus, che ha ucciso più di duecentomila persone in tutto il mondo. È stesa immobile accanto all’uomo che da dodici anni è suo marito, nella loro casa a Paarl, a circa un’ora di macchina da Città del Capo.
L’espressione del marito, ancora addormentato, è insolitamente tranquilla. È un uomo violento.
Solo una settimana fa ha minacciato di ucciderla. “Mi metto a guidare contromano nel traffico”, aveva detto con le narici dilatate, “poi sterzo con il pick-up così sarai investita da un camion”.
Jephtas sopporta le sue violenze da quasi dieci anni. Percosse che possono arrivare alla minima infrazione delle sue regole. Per esempio quando la cena non è pronta alle sei in punto. Una volta aveva dimenticato di comprare la carta igienica. Lui ha ringhiato: “Ti ucciderò”.
Adesso sono le sei del mattino, più o meno l’ora in cui comincia di solito la giornata di Jephtas. Questa madre di 33 anni si alza, si veste ed esce dalla stanza.
Oggi se ne andrà con i suoi tre figli. Andranno in un rifugio per le sopravvissute a violenze di genere vicino a casa loro. Ma devono fare in fretta ed essere silenziosi.
Telefoni che squillano in continuazione
Al centro sulle violenze di genere di Tshwane i telefoni non smettono mai di squillare. Pheladi Mamaila è un’operatrice sociale che lavora lì: “Appena metti giù il telefono arriva subito un’altra chiamata”.
Nel suo turno di dodici ore coordina una squadra di dieci operatrici. Fa il turno diurno per due giorni, poi due turni notturni e poi si ferma per quattro giorni, quando subentrano altre due squadre. In totale ci sono quaranta operatrici che gestiscono tra le cinquecento e le mille telefonate al giorno da donne provenienti da tutto il paese che ora sono bloccate in casa con i loro aguzzini.
C’era da aspettarselo. Per le donne sudafricane la possibilità di essere uccise per ragioni legate al loro genere è cinque volte più alta rispetto alle donne del resto del mondo. Lo dicono le statistiche del governo sudafricano.
I dati del centro di controllo dimostrano che nei primi quattro giorni di lockdown in Sudafrica il numero di chiamate quotidiane è raddoppiato. I messaggi al numero del centro sono più che decuplicati e anche di sms ne sono arrivati il doppio rispetto al solito.
Secondo l’ufficio che si occupa della documentazione al dipartimento dello sviluppo sociale, il 22 aprile il centro aveva ricevuto 12.702 telefonate dall’inizio del lockdown. Le persone chiamano per i motivi più diversi, dalla violenza domestica ai tentativi di suicidio, e spesso perché hanno bisogno di cibo. Ogni telefonata dura almeno mezz’ora, durante la quale Mamaila e le sue collaboratrici cercano di dare consigli a persone che spesso hanno subìto violenze traumatiche a casa loro.
In alcuni casi le operatrici richiedono l’intervento della polizia. “Altre volte le violenze sono così gravi da indurci a mandare le persone in case-rifugio dove possano stare al sicuro”, dice.
Mamaila e le altre coordinatrici che lavorano nel centro hanno chiesto al dipartimento dello sviluppo sociale di poter assumere altre sedici persone per arginare la marea di chiamate che continuano ad arrivare con il protrarsi del lockdown. Il dipartimento dello sviluppo sociale non ha risposto alle richieste di commenti di Bhekisisa.
Poco prima della fine del turno di Mamaila, ci sono ancora 524 chiamate in attesa di risposta. Anche le persone che riagganciano vengono richiamate per assicurarsi che stiano bene. “Abbiamo bisogno di personale”, sospira Mamaila.
Programmata nei dettagli
Sono le 6.15 di domenica mattina quando Lee-Ann Jephtas esce dalla sua camera da letto per l’ultima volta. Nel giro di un’ora sorgerà il sole sul granito grigio della montagna di Paarl che sovrasta la valle del fiume Berg, dove vive Jephtas. Per il momento la maggior parte degli abitanti della città dorme ancora.
Ogni parte della loro fuga è programmata nei minimi dettagli.
“Avevo paura di non svegliarmi in tempo e perdere la possibilità di andarmene, per questo non ho quasi chiuso occhio”, racconta. I quattro devono uscire di casa prima che l’uomo si svegli.
La madre fa alzare i più piccoli, i cui volti assumono immediatamente un’espressione preoccupata. Il giorno prima, quando il padre era fuori, Jephtas gli ha spiegato che non avrebbero più vissuto con il padre.
“Non posso più andare avanti così”, gli ha detto. Ha chiesto alla figlia di 11 anni di aiutarla a fare le valigie per lei e per i fratellini più piccoli e di nasconderle in un posto sicuro ma facile da raggiungere.
Jephtas le ha raccomandato: “Non mettere troppe cose in valigia: non vogliamo che papà si accorga che mancano delle cose”.
Guarda l’orologio. Sono passati cinque minuti. Devono sbrigarsi. Jephtas corre in cucina e riempie il bollitore d’acqua. Così il marito penserà che sia una domenica mattina come tutte le altre. Lui non si alza se prima lei non gli porta il caffè o qualcos’altro a letto.
Jephtas accende l’interruttore di plastica del bollitore. Il rituale mattutino familiare è parte fondamentale del piano di fuga. Bollirà solo per tre minuti. In quel lasso di tempo deve arrivare alla porta anteriore, aprire la serratura e far uscire tutti.
Aspetta un po’, finché il ronzio elettronico non diventa più forte. A quel punto il cuore le batte forte ma lei cerca di mantenere un’espressione calma.
Poi Jephtas prende le chiavi della porta. “Venite”, sussurra ai bambini, “andiamo”.
In questo periodo portare una sopravvissuta da violenze in un rifugio non è una cosa semplice
In questo periodo portare una sopravvissuta da violenze in un rifugio non è una cosa semplice, che si risolve con l’accompagnarla e lasciarla lì, racconta Moya Hay, direttrice della sede di Tshwane dell’organizzazione internazionale Esercito della salvezza. “Tutte quelle che arrivano al nostro rifugio devono prima di tutto sottoporsi al test per il nuovo coronavirus”.
Inoltre a tutto il personale e alle ospiti del rifugio vengono forniti dispositivi di protezione e la struttura viene sanificata almeno una volta al giorno, racconta Hay.
È stato ridotto anche il numero di persone che possono dividere una stanza.
Dall’inizio del lockdown il numero di richieste arrivate alla casa-famiglia per donne e bambini vittime di violenza gestita da Hay è sconvolgente. L’organizzazione però preferisce non dare dettagli sul numero di donne e bambini ospitati.
L’organizzazione gestisce un numero di emergenza che funziona 24 ore su 24. “Due notti fa ha chiamato una donna che piangeva e basta”, racconta Hay.
Effetto ritardato
Finora il Sudafrica non ha assistito all’aumento esponenziale di violenze domestiche temuto da molti, afferma Bernadine Bachar, la direttrice del Centro Saartjie Baartman per donne e bambini, nella provincia del Capo occidentale. Tuttavia, aggiunge, il numero di casi ha cominciato a crescere dopo l’estensione del lockdown appena prima di Pasqua.
Di conseguenza il dipartimento per lo sviluppo sociale ha cominciato a contattare alberghi e case vacanze per offrire riparo alle donne e ai bambini in difficoltà, afferma Mmabatho Ramagoshi, segretaria generale della International alliance of women. Durante il lockdown è intervenuta in un seminario online sulla violenza di genere organizzato dal dipartimento per le donne, i giovani e le persone con disabilità. “Non abbiamo un numero sufficiente di rifugi per gestire questa pandemia, ha detto Ramagoshi”.
I maltrattamenti di donne e bambini con ogni probabilità aumenteranno con il protrarsi della pandemia, avverte Amber Peterman, ricercatrice che ha condotto una ricerca per il centro studi non profit statunitense Center for global development. È il primo di una serie di progetti condotti dal Gender and covid-19 working group, una squadra di ricercatori indipendenti. Il documento di 45 pagine raccoglie testimonianze sulle conseguenze della pandemia sulla violenza contro le donne e i bambini riferiti a crisi passate come quella dell’hiv o dell’ebola e delinea nove diversi fattori che potrebbero far crescere le violenze.
La conclusione salta all’occhio, secondo Peterman: è stato dimostrato che la quarantena e l’isolamento sociale fanno aumentare per donne e bambini il rischio di subire violenze.
Perché? Per la semplice ragione che sono più esposti ai potenziali aggressori. Controllare i comportamenti degli altri, scrivono i ricercatori, può essere un meccanismo di reazione per gli autori di violenze, che soffrono per la perdita di controllo dovuta alla quarantena. “Anche al di fuori del contesto di una pandemia, l’isolamento è una forma di abuso molto diffusa nei casi di violenza inflitta dal partner ”. Quando gli uomini migrano per lavoro, il tasso di violenze tra partner diminuisce.
In uno studio pubblicato a marzo alcuni ricercatori hanno concesso ad alcuni uomini del Bangladesh che vivono in povertà dei prestiti con cui avrebbero potuto pagarsi il viaggio per trovare un lavoro stagionale altrove. Il risultato? In soli sei mesi le violenze fisiche e sessuali commesse dal partner sono calate del 4 per cento.
Sebbene il 4 per cento possa non sembrare molto, secondo i ricercatori vale la pena notare la correlazione tra gli uomini che non ottengono il prestito e le donne che subiscono violenze. Nei villaggi dove non sono stati concessi prestiti per emigrare la possibilità che le donne subissero violenze fisiche e sessuali era il 31 per cento più alta.
Mentre la malandata economia sudafricana continua il suo declino, le preoccupazioni finanziarie potrebbero alimentare ulteriormente le violenze contro donne e bambini. Peterman spiega: “Sappiamo già che in molte comunità povere sono aumentati i livelli di violenza a causa dell’insicurezza alimentare e dello stress”.
Le preoccupazioni finanziarie e la povertà sono state correlate a comportanti pericolosi come l’abuso di sostanze stupefacenti, la contrazione di debiti e il sesso a pagamento, che a loro volta accrescono le probabilità di violenze contro donne e bambini. Lo dimostra una ricerca pubblicata nel 2018 sulla Annual review of economics.
Tuttavia i sistemi di sicurezza sociale già messi in campo in Sudafrica potrebbero aiutare, aggiunge Peterman. I ricercatori suggeriscono che le reti di sicurezza sociale come i congedi per malattia retribuiti, il sussidio di disoccupazione, i buoni pasto e gli sgravi fiscali assorbiranno lo shock del declino economico provocato dalla pandemia.
Il presidente Cyril Ramaphosaha annunciato che entro maggio gli assegni per i minori a carico saranno aumentati di 300 rand (14 euro). Tra giugno e ottobre questi assegni cresceranno di altri 500 rand (24,5 euro). Altri sussidi, come quello per la disoccupazione, aumenteranno di 250 rand (12 euro) al mese fino a ottobre.
Parlando di violenza contro le donne, Peterman e i suoi colleghi suggeriscono che questi assegni potrebbero essere ampliati e includere trasferimenti di liquidità per le famiglie colpite da maltrattamenti e violenze.
La Banca mondiale ha esaminato 22 ricerche sugli effetti dei programmi di aiuti economici alle donne sull’incidenza della violenza commessa dai partner. Dalla maggior parte degli studi emerge che questi programmi basati sui trasferimenti di denaro hanno ridotto il tasso di violenze, in particolare quelle sessuali.
Spiega Peterman: “Una lezione importante che ricaviamo da queste ricerche è la necessità di offrire alle persone gravemente colpite da violenze una qualche forma di sostegno, sia dal punto di vista finanziario che psicologico”.
Quattro figure incappucciate
Al telefono dal centro di controllo Mamaila è stanchissima. È abituata agli orari lunghi, ma in questi giorni nemmeno il sonno le consente di staccare dalle violenze di cui sente parlare ogni giorno. “Quando vado a letto, di notte, sogno queste donne”, racconta.
Torniamo a Paarl. Le strade sono silenziose, le persone sono rinchiuse nelle loro case da quasi un mese. I cittadini sorpresi a infrangere il coprifuoco possono essere multati o incarcerati. Ci si può spostare solo per andare in farmacia, nei negozi di generi alimentari o per lavorare in servizi essenziali come quelli sanitari.
Stamattina però si vedono per strada quattro figure incappucciate. Lee-Ann Jephtas e i suoi tre bambini si dirigono verso una scuola nelle vicinanze, cinque minuti a piedi dalla casa da cui sono appena fuggiti.
Lì un’operatrice sociale li verrà a prendere e li porterà al vicino rifugio per sopravvissuti a violenze di genere. La figlia più grande è nervosa. “Mamma, non dovremmo camminare un po’ più svelti? Cosa succede se papà si sveglia e viene a cercarci?”.
Sono quasi arrivati. Vede già i cancelli della scuola. Dovrebbe esserci una macchina ad aspettarli. Ma non c’è nessuno. Anche suo figlio l’ha notato.
Il piccolo chiede: “Telefona a quella signora, mamma, ti prego”.
L’operatrice forse è in ritardo, pensa.
Una volta arrivati davanti alla scuola, Jephtas si guarda attorno con nervosismo crescente.
Ricorda: “Ero terrorizzata che la polizia ci potesse vedere e riportare a casa o, peggio, che mio marito si svegliasse e venisse a cercarci”.
La pandemia di coronavirus non sta facendo aumentare soltanto il bisogno di rifugi sicuri in tutto il paese, ma anche i costi da sostenere per prendersi cura delle persone prese in carico, afferma Bernardine Bachar. Litri di prodotti igienizzanti per le mani, dispositivi di protezione per lo staff e spese mediche extra sono tutte nuove voci nel suo budget. Bachar sta spendendo di più anche per la benzina necessaria per andare ogni giorno a prendere i dipendenti a casa e portarli a lavoro. “La possibilità che fossero fermati dalla polizia mentre venivano al lavoro era una fonte di ansia”.
Se qualcuno nel rifugio gestito da Bachar si dovesse ammalare nel periodo di lockdown dovrebbe andare da un medico privato, e questi sono costi in più. “Vogliamo ridurre al minimo il rischio che le persone contraggano il nuovo coronavirus facendo la fila per ore nelle strutture sanitarie. Potrebbero esporre al rischio di contagio anche tutte le altre persone che vivono nel centro”, dice.
Il lockdown inoltre costringe le persone soccorse a fermarsi più a lungo del solito.
Quando le donne e i bambini arrivano in un luogo sicuro, spiega Bachar, l’operatore sociale di riferimento li aiuterà a stabilire una data di uscita e ad assisterli nella creazione di un sistema di sostegno che li aiuterà nella transizione verso la nuova vita fuori dal rifugio.
Adesso però con il prolungarsi del lockdown queste date d’uscita continuano a essere rinviate. “Questo crea molta frustrazione, rabbia e la necessità di ulteriori servizi psicologici”, spiega Bachar.
Da dove vengono i soldi per tutto questo? La maggior parte dei rifugi raccoglie circa la metà delle entrate da eventi di raccolta fondi come tè serali o giornate dedicate al golf, racconta Bachar, ma ora queste opzioni non sono più disponibili. Il 45 per cento circa dei soldi dei rifugi proviene dal dipartimento per lo sviluppo sociale. Però molti rifugi in tutto il paese non hanno ancora ricevuto i loro assegni, come ha sottolineato Zubeda Dangor, del National shelter movement, nel seminario online organizzato dal ministero per le donne.
Cosa ancora più rilevante, alcuni centri non hanno sufficienti dispositivi di protezione per lo staff. Nel 2019 da una ricerca sui rifugi in tutto il paese promossa dalla Commissione per l’uguaglianza di genere è emerso che, oltre ad essere cronicamente sottofinanziati, i centri che hanno ricevuto finanziamenti dal dipartimento per lo sviluppo sociale spesso sono stati pagati in ritardo, cosa che ha provocato gravi problemi di cassa.
“È di assoluta importanza ricevere fondi in più dal governo”, afferma Bachar.
Una possibile fonte di finanziamenti potrebbe essere il fondo che raccoglie i soldi confiscati dal governo alle attività criminali. Parte di questo denaro è già destinato ai rifugi e, come le sue colleghe di tutto il paese, anche Bachar si è affrettata a fare domanda per questi finanziamenti alla fine di febbraio.
Adesso però a causa del lockdown ai rifugi è stato detto che non sarà possibile erogare questi finanziamenti poiché sarebbero necessarie ispezioni che non possono essere effettuate. Con frustrazione Bachar dice: “Deve esserci un altro modo per fare queste ispezioni”.
Passano dieci, penosissimi, minuti prima che un pick-up bianco si fermi davanti alla scuola elementare di Paarl, dove Lee-Ann Jephtas e i suo tre figli stanno aspettando.
Al volante c’è un’operatrice proveniente da un vicino rifugio per sopravvissute a violenze. I Jephtas si accalcano dentro.
Lee-Ann ha appena chiuso la portiera quando sente vibrare il telefono.
Guarda il nome sulla schermo, poi l’operatrice sociale, e dice: “Sei arrivata giusto in tempo. È lui”.
(Traduzione di Giusy Muzzopappa)
*Nome di fantasia.
L’articolo è stato pubblicato dal sito sudafricano Bhekisisa - Centro per il giornalismo sulla salute. Ci si può iscrivere alla loro newsletter.