La crisi umanitaria è l’unica certezza rimasta agli afgani
In un hotel su una collina appena fuori Oslo da due giorni si discute della crisi umanitaria in Afghanistan, e in generale della situazione nel paese. Seduti al tavolo, una delegazione del governo di Kabul – che nessun paese occidentale ha ancora riconosciuto – e i rappresentanti di Stati Uniti, Regno Unito, Francia, Germania, Italia, Norvegia e Unione europea. Come prevedibile, parlando con la stampa i taliban hanno definito i colloqui, che dureranno fino a mercoledì, “un primo passo verso la legittimazione del governo afgano”, mentre la ministra degli esteri norvegese Anniken Huitfeldt ha specificato che non si tratta in alcun modo di un riconoscimento del nuovo esecutivo insediatosi dopo il 15 agosto a Kabul. Ma l’emergenza in corso in Afghanistan impone azioni concrete che passano inevitabilmente per un dialogo con i taliban.
La gravità della crisi economica e umanitaria in Afghanistan è misurabile sulla richiesta di aiuti senza precedenti fatta nei giorni scorsi dalle Nazioni Unite alla comunità internazionale: cinque miliardi di dollari per salvare i 22 milioni di afgani che vivono nel paese e i 5,7 milioni rifugiati in quelli vicini, la cifra più alta mai chiesta per soccorrere un paese in difficoltà ed evitare che le ricadute generino a cascata altre crisi (come quella migratoria in Europa).
Fondi congelati
Il sottosegretario generale per gli affari umanitari Martin Griffiths si è detto ottimista: la raccolta fondi nel 2021 è andata bene e pare ci sia una consapevolezza diffusa della crisi in corso nel paese. Ma le donazioni, per quanto ingenti, non basteranno a sanare una crisi strutturale derivata dal fatto che i fondi della Banca centrale afgana – 9,5 miliardi di dollari – sono congelati negli Stati Uniti e altri 450 milioni sono bloccati dal Fondo monetario internazionale. A complicare la situazione ci sono le rivendicazioni dei familiari delle vittime degli attentati dell’11 settembre sui fondi afgani custoditi a New York (il governo statunitense si pronuncerà su questo il 28 gennaio).
Il risultato è che la macchina dello stato è ferma, gli stipendi di funzionari, medici, insegnanti e altri lavoratori essenziali non vengono pagati da mesi e anche chi ha dei risparmi in banca non può ritirarli perché le banche sono a corto di liquidità. I prezzi sono alle stelle e la gente non ha di che sfamarsi. Dall’Afghanistan arrivano storie di famiglie costrette a vendere i propri figli e di un aumento inquietante degli espianti di reni destinati al commercio.
Il regime dei taliban è sottoposto a sanzioni statunitensi, la banca centrale afgana no, ma mandare soldi dall’estero è impossibile: le banche straniere si rifiutano di fare da intermediarie e rimandano indietro il denaro per paura di ritorsioni future da parte del Tesoro americano. In un lungo e articolato editoriale il New York Times spiega bene la situazione, in cui il ruolo degli Stati Uniti è cruciale. “Le sanzioni finanziarie mirate sono uno strumento di punizione appropriato e potente contro i regimi. Ma troppo spesso il loro effetto cumulativo nel tempo non è distinguibile da una punizione collettiva”.
I negozianti non possono aprire linee di credito per importare merci, gli agricoltori non possono essere pagati per quel che producono: gli aiuti umanitari non bastano, se il commercio si ferma il paese collassa. Una ong che fino ad agosto gestiva una scuola per formare programmatrici ha cominciato a usare le criptovalute per mandare aiuti alle studenti ovviando al problema del passaggio attraverso le banche. È un’alternativa che anche altre organizzazioni umanitarie stanno valutando. I taliban stanno dimostrando di essere molto peggio di quanto si temesse, ma colpire loro significa affamare l’intera popolazione. È su questo che insistono a Oslo chiedendo di scongelare i fondi.
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