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Lo sguardo rivoluzionario di Eikoh Hosoe

Kamaitachi #17, 1965. Dal libro Eikoh Hosoe, 2021. (Per gentile concessione dell'artista e di Mack Books)

C’è un’immagine del 1986 scattata da Eikoh Hosoe, autore che ha rivoluzionato la fotografia giapponese nella seconda metà del novecento, morto il 16 settembre a 91 anni, che non è inclusa in nessuna delle sue serie più conosciute. Ritrae la salma di Tatsumi Hijikata, il padre della danza butō, in una bara circondata da fiori. La foto è in formato orizzontale e il volto di Hijikata s’intravede a metà, nascosto in parte dal bordo della bara: ha i capelli grigi in ordine e gli occhi chiusi, mentre il resto del corpo è coperto da un lenzuolo bianco.

Sopra, incorniciato tra i crisantemi, campeggia un suo ritratto, sigaretta in mano e viso rivolto verso il basso, quasi stesse osservando la scena. È l’immagine che segna la fine naturale di un’amicizia e di una collaborazione durate quasi trent’anni. Nel 2009 l’editrice statunitense Aperture ripubblicò a un prezzo accessibile la versione completa di Kamaitachi, la serie uscita per la prima volta nel 1969 che di quel sodalizio è l’emblema. Oggi non è più disponibile, ma chissà che in occasione della morte del fotografo non decidano di ristamparlo.

Hosoe e Hijikata, due protagonisti del panorama avanguardistico giapponese degli anni sessanta, si erano conosciuti una sera di maggio del 1959 in un teatro di Tokyo. La sera in cui Hijikata, con la performance Kinjiki (Colori proibiti, come l’omonimo romanzo di Yukio Mishima), aveva portato sulla scena il rovesciamento di ogni regola. Sul palco, prevalentemente buio, Hijikata e un ragazzino, Yoshito Ōno, figlio dell’altro gigante del butō, Kazuo Ōno, e a sua volta danzatore: il secondo stringeva tra le cosce un pollo vivo fino a soffocarlo, a simboleggiare un atto di sodomia. Nell’aria, voci ansimanti e rumori di passi che s’inseguivano. Quanto bastava per lasciare i presenti ammutoliti. Era nato il butō.

L’architettura dei corpi
Il fotografo giapponese Eikoh Hosoe ha rivoluzionato la fotografia del suo paese, ritraendo corpi e paesaggi senza seguire le convenzioni, scrive Christian Caujolle
 

Tra il pubblico, entrambi entusiasti, lo stesso Mishima e Eikoh Hosoe, allora giovane fotografo alla ricerca di nuovi linguaggi. In una manciata di minuti Hijikata aveva stravolto per sempre il panorama della danza giapponese, e fra i tre artisti era nato un legame che solo la morte dello scrittore nel 1970 e quella del butōka sedici anni più tardi avrebbero interrotto.

Fuori, nel frattempo, montava la rivolta: le manifestazioni di piazza contro la decisione del governo di rinnovare il Trattato di sicurezza nippoamericano erano l’estrema reazione agli stravolgimenti che l’occupazione americana e l’imposizione di modelli statunitensi a tutti i livelli avevano provocato. Lo sradicamento e la crisi d’identità derivati dalle rapide trasformazioni in corso rendevano necessaria una ridefinizione della “giapponesità”, da ricercare in un passato “originario”, alternativo alla tradizione codificata. Fu quell’anno che Eikoh Hosoe fondò il gruppo Vivo (“vita” in esperanto). Insieme a lui altri giovani fotografi come Ikkō Narahara e Shōmei Tōmatsu.

Vivo diventò il punto di riferimento della cosiddetta “svolta degli anni sessanta”, incentrata sul rifiuto delle regole del realismo oggettivo, fino ad allora linguaggio prediletto dai fotografi della generazione precedente come Ken Domon, il più adatto a raccontare le macerie della guerra, l’unico plausibile per spiegare Hiroshima e Nagasaki. Ma Hosoe e compagni, attraverso la fotografia, volevano “fare esperienza della realtà” e premevano per il recupero della dimensione soggettiva del fotografo, nell’intento di “liberare la fotografia dalla sua rigidità e limitatezza” e “correggere il punto di contatto tra l’individuo e l’espressione”, come scriveva il critico Tatsuo Fukushima.

Per Hosoe furono gli anni dei suoi due capolavori: Barakei (1963), la serie realizzata con Mishima, unico protagonista insieme alle sue passioni e ossessioni, e Kamaitachi (1969), l’opera in cui il fotografo riuscì nell’impresa impossibile di “ritrarre ciò che giace invisibile nella memoria”, operazione accessibile, secondo Hosoe, “a chi sappia maneggiare bene la macchina fotografica”. Trentasette stampe in bianco e nero al platino – un “documentario soggettivo”, secondo la definizione dell’autore – che immortalavano e consegnavano alla storia la performance di Hijikata forse più spettacolare per l’eccezionalità dello sfondo naturale e immaginifico in cui il protagonista si muoveva. Non era la loro prima collaborazione – nel 1960 Hosoe aveva filmato il butōka in Heso to genbaku (L’ombelico e la bomba atomica), un breve dramma danzato sul tema dell’atomica –, ma di sicuro è quella che li legava più intimamente.

Kamaitachi è il frutto di due viaggi della memoria che Hijikata e Hosoe fecero insieme tra il 1965 e il 1968 nella regione settentrionale del Tōhoku, orizzonte incontaminato dell’infanzia di entrambi, terra fredda, aspra e povera dove il Giappone contadino non aveva ancora ceduto all’american way of life. Lì Hijikata era nato e cresciuto, e tra quei campi e quelle risaie Hosoe, originario di Tokyo, era sfollato da bambino durante la guerra. Ed è nel Tōhoku, la cui costa nel 2011 sarebbe stata inghiottita dallo tsunami, che i due andarono alla ricerca di quel passato cui attingere per ritrovare un’identità.

Come ogni ritorno, fu un’esperienza fortemente evocativa, carica di simboli, a cominciare dal titolo scelto per la serie. Kamaitachi era uno yōkai, una delle creature soprannaturali che popolano il folclore giapponese, con le fattezze di una donnola che, secondo una credenza popolare, si aggirava per le campagne, demoniaca e invisibile, armata di falcetto. A volte, si diceva, rapiva addirittura i bambini. Leggende come questa avevano accompagnato e terrorizzato Hosoe durante l’infanzia e ora gli fornivano lo spunto per metter mano al bagaglio di sensazioni e ricordi e farli riaffiorare sulla carta fotografica.

In quell’orizzonte di superstizione e inquietudine, in cui riemergeva forte l’animismo giapponese delle origini, Hijikata si fece guidare da Hosoe, regista d’immagini del passato, e diventò ora spirito delle risaie appollaiato in cima a una palizzata a scrutare l’orizzonte, ora creatura semiumana che volava con un balzo sopra le teste dei bambini, ora il matto del villaggio che si muoveva, innocente e pericoloso a un tempo, interagendo con gli abitanti divertiti. Anziane contadine dalla schiena ricurva e ragazzini dalle guance rubizze, comparse nel ruolo di se stessi, assistevano e partecipavano alla messa in scena dell’immaginario di Hosoe, Hijikata e di un popolo alla ricerca di sé.

Questo testo è tratto dalla newsletter In Asia.

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