L’Accademia per l’integrazione di Bergamo fa discutere
Se dici di amare Parigi di solito le persone annuiscono e sorridono, come se avessi detto qualcosa di ovvio. L’amore nei confronti di alcune città non ha bisogno di spiegazioni. Quando dico che Bergamo è una delle mie città italiane preferite, invece, la risposta che ricevo è: “Bergamo! Perché Bergamo?”. Quasi tutti ritengono necessario che io mi fermi qualche minuto per spiegare un’affermazione simile.
Non so perché il mio amore per Bergamo abbia bisogno di giustificazioni, ma se proprio devo darne, non mi viene in mente niente di meglio che un proverbio libico che dice: “In una città ci entri con la sua gente”. È un modo per dire che le persone che incontri e con le quali interagisci nel corso della tua visita potrebbero cambiare completamente – e spesso lo fanno – il modo in cui vivi la città.
L’ultima volta che sono andato a Bergamo però non è stato solo per godere della compagnia dei miei amici né per fare lunghe passeggiate nelle sue strade né per guardare i suoi tramonti da film. Ero spinto dalla curiosità di conoscere più da vicino l’Accademia per l’integrazione.
Sono andato al Gleno, uno dei centri di accoglienza straordinaria (Cas) rimasti aperti dopo la chiusura di tutti gli altri gestiti dalla cooperativa Ruah.
Regole ferree
Varcato l’ingresso, si procede nel cortile passando accanto a un vecchio edificio giallo. Agli angoli del cortile ci sono diverse biciclette e un po’ di persone che le aggiustano per ammazzare il tempo. Un palazzo grigio, scuro e abbastanza tetro ti fissa. A prima vista non sembra un posto felice. È il Gleno. L’immobile ha tre piani e può ospitare fino a 300 persone. Un intero piano è stato liberato per lasciare spazio all’Accademia per l’integrazione. Questo piano ospita trenta migranti ammessi al programma Grazie Bergamo, tutti gli altri sono ammassati nei restanti due piani.
L’Accademia è un progetto sperimentale partito nel settembre del 2018 su iniziativa dell’associazione Diakonia - Caritas Bergamo e la cooperativa Ruah, in collaborazione con il comune e la Confidustria di Bergamo. Il suo obiettivo è offrire un percorso di formazione linguistica, culturale e professionale che favorisca l’integrazione dei migranti in Italia e una convivenza serena con gli abitanti della città. Le regole all’interno dell’accademia sono molte e abbastanza rigide (ricordano il sistema di alcuni carceri di massima sicurezza, almeno stando a come li descrivono i film), ma tutte ruotano attorno agli stessi concetti fondamentali: obbedite agli ordini, lavorate sodo, siate grati e dimostrate questa gratitudine. La necessità di dimostrarsi grati viene presa davvero alla lettera e declinata in chiave inedita: i migranti devono portare cappelli con su scritto “Grazie Bergamo”. Insomma, un sistema particolarmente rigido, che ricorda il sistema di alcuni carceri di massima sicurezza (almeno stando a come li descrivono i film).
Nell’Accademia devono indossare tutti le stesse tute, che anche nei colori si ispirano a quelle utilizzate nelle prigioni (in alcune foto non si può fare a meno di pensare a Guantanamo). La giornata lavorativa comincia molto presto e segue un orario molto rigido, con il divieto di usare il telefono. Se hai seguito le regole verrai premiato con delle mostrine sulla tuta, come dei gradi o una specie di promozione. Una volta completato il programma ti viene consegnato un certificato in cui vengono riconosciuti i risultati che hai raggiunto e poi “forse” potrai essere premiato con un contratto, e “forse” un permesso di soggiorno. Grandi forse. Troppi forse.
“No, non entrerei mai nel programma”, mi ha detto uno dei migranti ospitati al Gleno. Poi si è fermato e ha sorriso per un momento, come se volesse trovare le parole giuste per dirlo, e alla fine ha aggiunto: “Le persone che lavorano qui sono meravigliose, lo so perfettamente che non è colpa loro, ma a volte è difficile distinguere. Non entrerei mai nell’Accademia, se entrassi nel programma non avrei tempo per me stesso, non puoi stare mai da solo”.
Lavoro volontario?
Ha proseguito spiegando: “Sono qui da qualche anno, e ho fatto molti lavori da volontario. Mi piace farlo, è il mio modo per ripagare Bergamo di quello che ha fatto per me. Ora però mi dicono: ascolta, tutto quello che hai fatto fin qui non conta, devi ricominciare da capo!”. Mi ha detto che molti suoi amici sono rimasti delusi quando alla fine del percorso non hanno ottenuto un lavoro. “Questo genera molta confusione, non siamo mica stupidi. Sono in tanti a decidere di lasciare il programma perché da un lato sei praticamente costretto a svolgere del lavoro volontario per molto tempo, ti spingono a farlo, però se gli dici che ti serve trovare un lavoro loro ti rispondono: ‘Ma non parli ancora bene l’italiano’. Perciò mi chiedo che senso ha tutto questo. Quando lavoravo gratis tutto il giorno, tutta la settimana e tutto l’anno, andava bene, non mi serviva parlare italiano. Poi però chiedo di avere un lavoro vero e loro mi dicono ‘Scusa, ma non parli bene l’italiano’?”.
E continua: “Non ti parlano né ti stanno ad ascoltare per offrirti l’opportunità di utilizzare e migliorare le tue competenze. Per esempio, se prendessero una persona che sa saldare e la mettessero a lavorare per un anno come saldatore, e facessero lo stesso con i meccanici, i carpentieri, i sarti, e via discorrendo, migliorerebbero le loro competenze e farebbero qualcosa di valore per la comunità in cui viviamo. Questa possibilità però ci è negata. Ti fanno svolgere lavori di ogni genere, come per esempio pulire, raccogliere i rifiuti e cose di questo tipo. Così non puoi migliorare un bel niente”.
Un mediatore culturale che in precedenza ha lavorato per il Cas mi ha detto: “Ai migranti fa piacere svolgere dei lavori volontari finché non trovano un lavoro, altrimenti impazzirebbero ad aspettare senza fare niente nel Cas. Però dovrebbero fare delle attività adatte a loro, qualcosa che sono in grado di fare, qualcosa che consenta loro di mostrare le loro passioni e le loro competenze, e devono sentirsi utili. Se la gente vede che sono in grado di lavorare bene, e lo sono davvero, allora possono trovare un lavoro. Però se fai svolgere loro dei lavori che non sono in grado di svolgere e dopo un po’ li fai passare ad altro senza dargli l’opportunità di imparare, è come se volessi dire: ‘Guarda, non sanno fare niente, ma sono persone buone e povere, e noi siamo i buoni che insegnano loro un mestiere’. Questo è parte dell’idea secondo la quale i migranti sono persone ‘vuote’ da riempire con le nostre competenze, i nostri comportamenti e la nostra cultura occidentale. Proprio il contrario di ciò che significa incontrare e accogliere le altre culture”.
Le solite soluzioni
In tutto il mondo è diffusa una propaganda che induce le persone a pensare che vista la situazione attuale c’è da aver paura e l’unica possibilità sia contrattaccare. In questo dibattito, le uniche soluzioni suggerite sono state praticamente costruire muri, rafforzare le frontiere, intercettare le imbarcazioni e respingere i migranti. L’Accademia dovrebbe essere una contro-soluzione, ma il problema è che quest’accademia si basa sulle stesse identiche soluzioni per veicolare la sensazione di un processo calcolato. Sono tutte manovre politiche di corto respiro, pensate per dare l’illusione di ottenere risultati immediati e di avere la situazione sotto controllo.
Non metto in dubbio le buone intenzioni di questa accademia, o almeno cerco di non farlo troppo, anche se so che la strada per l’inferno è lastricata di buone intenzioni. Temo però che questa accademia non sia altro che una fabbrica di integrazione per migranti, un progetto il cui scopo è introdurre una formula di produzione di massa grazie alla quale fai entrare i migranti da un lato e ti aspetti di ottenere al termine del processo dei migranti perfettamente integrati, buoni e pieni di gratitudine, addestrati a fare ciò che viene detto loro di fare. In cambio i bergamaschi saranno tanto gentili da ospitarli. Così si rafforza l’idea che si debba garantire un permesso di soggiorno a chi lo merita, e che questo sia un premio riservato agli immigrati buoni, non un diritto internazionale.
Il 26 maggio ci saranno le elezioni comunali. I giovani di Bergamo hanno ricevuto una lettera firmata da Giorgio Gori, l’attuale sindaco di Bergamo e fondatore dell’Accademia, che si concludeva così: “Per riuscirci questa volta c’è bisogno di un grande impegno da parte di tutti, anche dei più giovani. Sarebbe bello, quindi, se anche tu volessi fare la tua parte. C’è già un bel gruppo di ragazzi e di ragazze che sta collaborando alla campagna che ci accompagnerà al voto del prossimo 26 maggio. Se vuoi partecipare scrivimi subito”.
“I politici di solito si ricordano dei giovani, e più in generale della gente, solo quando si avvicinano le elezioni”, continua il mediatore culturale. “Mettono in piedi dei tentativi di dialogo con loro partendo dal presupposto che i giovani non sono in grado di fare ciò che andrebbe fatto, che dovrebbero impegnarsi di più e che forse il modo migliore per farlo sia votare per loro”. A Bergamo c’è un’ottima possibilità di aggirare questo monologo elettorale, perché i giovani non solo hanno parlato ma sono già al lavoro e hanno ottenuto dei risultati magnifici. Perché i politici non li ascoltano? Perché non li sostengono e non imparano dalla loro esperienza?
A Bergamo esiste già un bel gruppo di ragazzi e ragazze che collaborano. Si chiamano Sala da thè e si definiscono “un gruppo informale multietnico, uno spazio comodo, accogliente, informale”, che “nasce in un contesto politico allarmante e razzista, per muoversi tra legalità e informalità, volto a comprendere i bisogni primari tanto quanto i desideri e le ambizioni profonde di migranti e non. Il gruppo raccoglie persone con diverse competenze a disposizione del progetto, dall’avvocato alla farmacista, dagli studenti di varie facoltà agli artigiani, da insegnanti ed educatori ad artisti, da sportivi a esperti di comunicazione”.
È facile trovarli, basta fare una passeggiata fino alla Kascina autogestita popolare, una casa che ha ospitato tanti altri progetti e ha resistito per cinque anni. Quando arrivi puoi ritrovarti a seguire un corso di italiano, a sentire un concerto, a vedere un film o a partecipare a una festa. Qualunque cosa tu faccia, noterai un unico messaggio, forte e chiaro, comune a tutti. Un messaggio che non è necessario scrivere su un cappello, perché i sorrisi sui visi lo esprimono bene: “Grazie, Bergamo”.
(Traduzione di Giusy Muzzopappa)