Un mio caro amico di recente ha ricevuto un invito dall’Airl – Associazione italiana rimpatriati dalla Libia – per assistere alla proiezione del film Il mare della nostra storia di Giovanna Gagliardo. Il mio amico mi ha chiesto di andarci per conto suo. Riconoscendo immediatamente il titolo, ho accettato l’opportunità non tanto per imparare qualcosa sulla storia libica, visto che conosco molto bene la nostra storia, ma per ragioni personali: il mio amico fotogiornalista Mohamed ben Khalifa ha partecipato alle riprese del film in Libia, ed è stato uno dei suoi ultimi lavori prima di essere ucciso nella zona sud di Tripoli.

Ho fatto per anni ricerche su quell’epoca della nostra storia, ho collaborato con molti artisti e giornalisti italiani, e nonostante ciò ho sempre la sensazione che la nostra storia non sia stata raccontata. Questo perché per molto tempo la storia della Libia è stata plasmata e narrata da altri lidi. La nostra storia è un vasto mare di storie individuali e il tentativo di catturarle non è impresa semplice. Uno dei paradossi di essere libici è che per tutta la vita ti ritrovi a lottare per avere il diritto di parlare e, quando lo hai ottenuto, non sai cosa dire.

D’altro canto, raccontare le nostre storie è una sfida per chiunque. È difficile formare una linea dritta, gli anni e gli strati di ricordi si rifiutano di piegarsi a un ordine e saltano gli uni sugli altri nonostante i nostri sforzi di costringerli a martellate entro una struttura. Quando qualcuno cerca di riportare alla mente i ricordi, questo processo somiglia più a un viaggio lungo un torrente di coscienza che si naviga tra confusione, comprensione, frustrazione e appagamento. Questi frammenti possono somigliare più a un estratto di diverse vite, senza logica, senza un tema né uno schema. A differenza dei romanzi, le nostre vite non veleggiano lisce dall’inizio alla fine, ma subiscono colpi e graffi, o assistono a fuochi d’artificio che riempiono il cielo notturno per qualche secondo e poi si dissolvono nell’oblio. Gli occhi che guardano questo spettacolo, le dita che lo indicano, i sorrisi che ispira, anche tutto questo è destinato a sparire.

I lunghi anni di colonizzazione avevano lasciato ai libici un’eredità di analfabetismo, povertà, diseguaglianza

Cercherò di raccontarvi una storia, o meglio di offrirvi qualche barlume della vita di Ali, così come lui l’ha raccontata a me. Forse riusciremo a fissarla sullo sfondo di una più ampia serie di eventi. Poiché dobbiamo cominciare da qualche parte, comincerò dall’epoca successiva alla seconda guerra mondiale in Libia. Ali nacque a Shakshok, un paesino alle pendici dei monti Nafousa occidentali. Era il luogo d’origine della sua tribù. La sua famiglia faceva parte del clan Awlad Shibi (”figli del leone”), uno dei quattro che formano la tribù Almahamid, una delle più grandi della Libia occidentale.

Ali era il figlio più giovane, ma anche il più ribelle. All’età di 13 anni circa decise di andare a Tripoli. Fuggì via e si nascose nel cassone di un camion diretto nella capitale. Voleva qualcosa di più della terra di suo padre e delle rocce, della sabbia e delle montagne che si scorgevano in tutte le direzioni. Voleva ricevere un’istruzione migliore, avere un lavoro dignitoso e vedere il mondo. Dopo anni di colonizzazione ottomana seguita da quella italiana, non era facile per i libici realizzare quei sogni in Libia. I lunghi anni di colonizzazione avevano lasciato ai libici un’eredità di analfabetismo, povertà, diseguaglianza sociale e iniqua distribuzione della ricchezza. All’epoca gli italiani possedevano le terre, i cinema, i negozi, i bar e i casinò.

Quando arrivò a Tripoli, come la maggior parte dei libici dell’epoca indossava solo la sua jalabiya, una tunica tradizionale semplice, senza pantaloni né scarpe. Camminò per ore ammirando gli edifici e le strade. Non c’erano molte automobili (e naturalmente nessuna di quelle più belle erano guidate da libici), ma erano molte di più di quelle che aveva mai visto in tutta la sua vita. Finì sulle coste del Mediterraneo. Non aveva mai visto il mare prima di allora, nemmeno in foto: la più grande quantità di acqua che aveva visto prima di allora era il piccolo stagno nella terra di suo padre. L’impatto di quel primo assaggio di mare fu enorme. Era terrorizzato, pensava che quella fosse la fine, che il mondo annegasse nell’acqua. Urlò e fuggì via. Gli ci volle molto tempo per superare la paura del mare, ma alla fine proprio il mare diventò una delle sue più grandi passioni.

Cittadini di seconda classe
Fu fermato dai soldati britannici, perché gli umili beduini non erano i benvenuti nella capitale. All’epoca la Libia era sotto la custodia britannica, e questo significava che tutti i libici erano considerati cittadini di seconda classe. Una volta mi ha detto che sebbene fosse vero che Gheddafi era un dittatore, era altrettanto vero che prima che espellesse le basi militari americane e britanniche i soldati erano soliti guidare ubriachi e scagliare le bottiglie vuote sulle teste dei libici per puro divertimento, senza che nessuno potesse dire niente.

Spuntò fuori un uomo disposto a garantire per lui una volta accertato che Ali apparteneva a una tribù vicina a quella della sua famiglia. Invitò Ali a stare a casa sua e lo accolse come uno della sua famiglia. Ali si andò a iscrivere a una scuola, ma fu respinto a causa del suo abbigliamento umile. Questo gli spezzò il cuore. Era sempre vissuto con orgoglio e dignità, era stato allevato nella convinzione che non è importante l’abito che una persona indossa, ma la persona che c’è dentro.

L’uomo tagliò i capelli di Ali, gli comprò un abito e gli diede un vecchio paio di scarpe che aveva pulito, lucidato e riempito con della carta per adattarle ai piedi di Ali. Gli disse: “Adesso torna in quella stessa scuola”. Ali fece come gli era stato detto e con sua grande sorpresa venne accolto bene e gli fu permesso di iscriversi. A ripensarci adesso forse posso collegare alcune abitudini di Ali alla sua infanzia. I suoi abiti eleganti, le sue camicie stirate, il modo in cui si radeva con il tocco di un chirurgo esperto e il profumo della sua acqua di colonia che baciava con dolcezza l’aria annunciando il suo arrivo prima ancora di vederlo.

Ali cominciò a studiare e a lavorare, sapeva leggere e scrivere perciò per lavoro leggeva e scriveva lettere per gli altri. Dopo anni di colonizzazione italiana i libici non avevano avuto accesso all’istruzione per diverse generazioni. Per di più i fascisti proibirono l’insegnamento dell’arabo.

Una volta, nel giorno dell’Eid, Ali indossava un candido abito nuovo e guidava una bicicletta che aveva acquistato risparmiando sui soldi guadagnati. Mentre usciva per fare gli auguri per l’Eid era felice. Passando da un posto di blocco della polizia, un agente in piedi lì accanto lo picchiò con una forza tale che Ali cadde dalla bicicletta. Il suo abito bianco si era tutto macchiato di polvere e fango. Pianse, non perché lo schiaffo gli aveva fatto male, ma perché si era sentito di nuovo umiliato e impotente. Raccolse la bicicletta, guardò l’uomo e gli chiese in lacrime, “Ma perché l’hai fatto?”. Il poliziotto rispose con semplicità e noncuranza, “Perché posso farlo”.

Ali all’epoca aveva non più di sedici anni, ma lasciò il suo lavoro perché aveva deciso di diventare poliziotto. Il suo amico falsificò il suo certificato di nascita perché potesse essere accettato dalla commissione di ufficiali britannici e libici. Un gentile medico italiano che Ali conosceva ed era incaricato di svolgere tutti gli accertamenti sanitari lo fece passare.

Ali non smise mai di pensare al poliziotto che lo aveva schiaffeggiato. Il giorno successivo alla fine del suo addestramento tornò da quel poliziotto, gli si piazzò davanti in uniforme e gli diede un forte schiaffo. Raccontandomi la storia molti anni dopo, mi disse: “Non ho mai dato uno schiaffo così forte a nessuno in tutta la mia vita”. L’uomo cadde per terra e prima che riuscisse a rimettersi in piedi Ali gli disse: “Perché adesso anche io posso farlo”.

A seconda della sponda sulla quale ti trovi, il mare tra noi può raccontare storie diverse

Dopo molti anni lasciò la polizia, continuò a studiare e più tardi si occupò di altro, viaggiando in tutta la Libia, in gran parte dei paesi africani e in tutta l’Europa. Ali conobbe un’infermiera di nome Najyea, a sua volta figlia di un infermiere, e poco dopo il loro matrimonio si trasferirono in Inghilterra, dove lui avrebbe studiato comunicazione. Quando fece infine ritorno a Tripoli entrò al ministero della sanità e dedicò anni a questo settore. I due si stabilirono in una bella casa a Tripoli. La casa aveva un grande giardino. Da dentro si vedevano le file di palme e, oltre, la linea blu del mare che abbracciava il cielo.

Ali si rifiutò di lasciare la sua casa nel corso della guerra del 2011 e per tutti gli anni successivi, anche quando gli scontri erano troppo vicini, mantenne la stessa posizione, dichiarando di non voler cambiare idea. Stroncato da un infarto, giovedì 6 febbraio 2020 mio padre Ali Khalifa Abo Khraisse è morto a casa sua, nel suo letto, tra i suoi cari.

Mio padre e io non potremmo essere più diversi, almeno a prima vista. E tuttavia se cammino seguendo soltanto il ritmo del mio tamburo interiore immagino sia in parte perché lui ha fatto lo stesso. Una volta ho scritto ad Andrea Segre: “Mio padre non ha mai sopportato alcun leader, presidente o personaggio pubblico libico. Pensa che quando nel 2012 abbiamo per la prima volta potuto votare nelle elezioni che avrebbero visto la nascita del Governo di accordo nazionale, lui è andato al seggio e ha votato scheda bianca. Più tardi, mentre chiacchierava con amici e vicini all’esterno del seggio, ha detto sorridendo: ‘Alle elezioni del 1965 ho votato scheda bianca perché all’epoca non c’era secondo me nessuno degno dell’incarico. Oggi è lo stesso, non vedo nessuno che sia all’altezza del compito’. A quel punto ha tirato fuori una tessera elettorale del 1965 che aveva conservato. Le persone stupite hanno cominciato a scattare delle foto”. Spero che un giorno, visitando la sua tomba, potrò dirgli che finalmente abbiamo un governo democratico degno di tale nome.

A seconda della sponda sulla quale ti trovi, il mare tra noi può raccontare storie diverse. Alcune di queste storie continuano ad accadere ancora oggi, ogni giorno, anche se non ci facciamo caso. Sono le storie dei migranti che muoiono nel tentativo di attraversare il mare o vengono respinti verso zone di guerra dalle quali stanno cercando di fuggire. Il mare tra noi non è mai stato gentile con i libici, non ha portato altro che dolore e invasioni. Sotto i nostri piedi c’è il petrolio, ma noi non ne traiamo alcun vantaggio, stretti dal deserto alle spalle e dal mare davanti. Costretti a continuare a combattere, a sognare un futuro migliore, per avere il diritto di parlare e di raccontare la nostra storia. Riposa in pace, padre mio, te lo sei guadagnato. Possa guadagnarmelo anche io un giorno.

(Traduzione di Giusy Muzzopappa)

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