Per i libici aprile è un mese crudele
Aprile è davvero un mese infausto, e non solo perché comincia con una bugia, ma anche per il suo gusto particolare per i disastri: il massacro in India di Jallianwala Bagh nel 1919, il massacro di Deir Yassin in Palestina nel 1948, l’inizio del genocidio contro i tutsi in Ruanda nel 1994 o l’incidente di Černobyl nel 1986. Aggiungete l’affondamento del Titanic nel 1912, l’assassinio di Martin Luther King nel 1968 e l’inizio delle proteste di piazza Tiananmen nel 1989. Riesco quasi a vedervi mentre pensate che si potrebbe prendere un mese qualsiasi ed elencarne gli avvenimenti orribili, ma lasciate che vi racconti come per ogni libico il mese di aprile sia associato a eventi molto dolorosi.
Muammar Gheddafi scrisse alcune delle pagine più buie della storia del paese nel mese di aprile. Per esempio, gli arresti di massa di attivisti politici nell’aprile del 1973 e le esecuzioni di ufficiali nell’aprile del 1975. Il 7 aprile dell’anno successivo furono trasmesse in tv le impiccagioni di studenti arrestati durante le proteste. Gheddafi proclamò il 7 aprile un giorno di vacanza nazionale e per molti anni l’ha festeggiato mettendo a morte sulla pubblica piazza gli studenti sospettati di essere suoi oppositori.
Sempre ad aprile, negli anni ottanta Gheddafi sguinzagliava i suoi squadroni della morte per dare la caccia ai libici all’estero. In questo mese, nel corso degli anni, studenti, uomini d’affari, giornalisti ed ex agenti di polizia libici sono stati assassinati in tutto il mondo, in Italia, Regno Unito, Libano, Stati Uniti, Germania e Cipro.
L’insabbiamento dell’emergenza
Il 4 aprile 2019 Khalifa Haftar ha lanciato il suo attacco contro Tripoli per riunificare il paese sotto il suo dominio, con il sostegno di Arabia Saudita, Russia, Emirati Arabi Uniti ed Egitto. Le milizie dell’area occidentale del paese, unite sotto il Governo di accordo nazionale (Gna) di Tripoli e sostenute dalla Turchia, sono riuscite a fermare l’attacco. Un anno dopo, nonostante tutti i vertici, le ingerenze, gli accordi e le dichiarazioni ufficiali, la guerra non è ancora finita. Le armi e i mercenari continuano ad arrivare a entrambi gli schieramenti e continua a crescere il numero di morti tra i civili e di sfollati.
Secondo i dati di Action on armed violence (Aoav), nel 2019 il 72 per cento delle vittime civili è stato provocato dagli attacchi aerei e il 19 per cento dai colpi d’artiglieria. Si tratta dei livelli più alti registrati in Libia dal 2011. Le fazioni in lotta non sono riuscite a rispettare l’annunciata tregua umanitaria, che avrebbe dovuto dare a un paese devastato la possibilità di concentrare l’attenzione e gli sforzi sulla pandemia globale di coronavirus.
Quattro giorni dopo aver confermato il primo caso in Libia, il 24 marzo 2020 a Tripoli, il Centro nazionale per il controllo delle malattie ha annunciato altri casi positivi a Tripoli e Misurata. Il 1 aprile erano dieci i casi confermati in Libia. In molti hanno condiviso questa notizia ma non hanno menzionato il fatto che il Centro nazionale per il controllo delle malattie aveva eseguito solo 131 tamponi per il Covid-19.
Il dottor Ajram di Bengasi è stato convocato dall’esercito dopo aver denunciato la mancanza di protezioni sanitarie per i medici
Imitando il modello adottato dall’Egitto di fronte alla pandemia, il governo militare nella Libia orientale controlla tutte le fonti d’informazione, compresi i giornali e i canali televisivi. Ci sono diversi casi sospetti d’infezione, ma le autorità negano tutto. In assenza di un meccanismo trasparente per eseguire i tamponi e di qualsiasi possibilità di accedere ai dati correlati, è come se le autorità affermassero “è vero perché lo diciamo noi”.
Il 29 marzo il dottor Mohammed Ajram di Bengasi ha sfidato la versione ufficiale e le cose per lui si sono mese male. Il dottor Ajram, un volontario che opera con la sua squadra per contrastare la pandemia di Covid-19 a Bengasi, è intervenuto al telefono durante un notiziario trasmesso dal canale televisivo Al Hadath e ha svelato che negli ospedali di Bengasi manca l’attrezzatura necessaria perfino a eseguire i tamponi. Ha inoltre sollevato una questione che nessun altro ha osato porre: visto che il ministero della salute ha ricevuto 300 milioni di dinari libici (circa 195 milioni di euro) dalla banca centrale, come mai loro non hanno ancora tute o mascherine protettive? Perché continuano a lavorare con equipaggiamenti di fortuna che non rispettano i minimi standard di sicurezza? Il giorno dopo il dottor Ajram ha scritto questo post sulla sua pagina Facebook: “Adesso hanno messo agli atti la dichiarazione che ho fatto ieri durante la mia partecipazione al programma su Al Hadath Tv e mi hanno informato che il capo di stato maggiore vuole incontrarmi. In questo momento mi sto recando dal capo di stato maggiore Abdulrazek al Nadoori. Possa Dio salvare tutti”. È stato il suo ultimo post e diversi attivisti sostengono che sia stato arrestato.
Bisognerebbe sottolineare che Al Nadoori è anche a capo del Comitato supremo per il contrasto all’epidemia di coronavirus. In una conferenza stampa del 23 marzo, Al Nadoori ha dichiarato che tutti gli ospedali erano equipaggiati e che avevano a disposizione i materiali necessari. Ha poi aggiunto che solo il Comitato supremo è autorizzato a rivolgersi alle persone e ha ricordato ai medici che non sono permesse critiche. “Chiunque critichi è un traditore”, ha dichiarato, alla lettera.
Il governo della Libia occidentale ha cercato di fare il contrario di ciò che è stato fatto a est, trasferendo ogni responsabilità alle autorità locali. Ha stanziato 75 milioni di dinari (più di 48 milioni di euro) per le municipalità, i consigli locali e le commissioni governative per il contrasto dell’epidemia. Ha stabilito che spetta agli organismi locali spendere questi fondi, entro i limiti previsti dal bilancio, per coprire tutte le spese necessarie all’operatività, alla protezione personale, al controllo dei contagi, alle misure temporanee di isolamento e quarantena, all’acquisto di kit per eseguire i tamponi, sterilizzatori e all’organizzazione di campagne di sensibilizzazione e di corsi di formazione.
So cos’è la paura pura, so cos’è il dolore e, fidatevi di me, sopra ogni altra cosa so cos’è la guerra
Il consiglio comunale di Tripoli ha rifiutato questi fondi per l’emergenza e ha invece istituito una cassa che sarà alimentata da donazioni e altre forme di sostegno individuali. In una dichiarazione video il sindaco di Tripoli Abdul Raouf al Mal ha definito “insufficienti” i fondi erogati dal governo, che ha criticato: “Come farà il comune a provvedere ai respiratori, ai materiali per la sterilizzazione e ad altre esigenze di questo tipo in grandi quantità? C’è molta confusione tra le responsabilità del comune e quelle del ministero della salute e del Centro nazionale per il controllo delle malattie”.
Entrambi i governi stanno ancora affrontando tutta questa storia nella classica modalità libica: istituendo comitati, spendendo milioni in una corsa a comprare e costruire cose solo sulla carta e imbavagliando i mezzi d’informazione per nascondere la realtà. In Libia la corruzione non è un’aberrazione, è la norma.
Mentre cerco di spiegare la situazione in Libia mi torna in mente una foto che ho visto di recente, scattata dal giornalista Amru Salahuddien. Il suo obiettivo è riuscito a cogliere uno dei momenti più confusi nella storia moderna di questo paese, in cui si mescolavano un’ironia nera e l’amarezza di una realtà surreale. Il fotografo ha colto un momento sul fronte di Tripoli in cui si vede un giovane combattente affiliato al Gna che imbraccia il kalashnikov con il dito sul grilletto e sul volto una mascherina.
Quante guerre è stato costretto a combattere quest’uomo? La mascherina sul suo viso sembra più un tentativo di ragionare con una realtà assurda che una disperata misura di protezione. Sta cercando di scendere a patti con il destino ignorando il fatto che nella sua posizione ci sono più probabilità di prendersi un proiettile o un missile che di prendersi un virus? Esiste un distanziamento sociale più grande della guerra? Eppure quella mascherina lo rendeva più umano: non è una macchina omicida piena di rabbia che urla “Allahu akbar” e sparge morte sui suoi nemici; è solo un ragazzino spaventato che un giorno si è svegliato e si è trovato a essere obbligato a combattere una guerra scatenata da vecchi.
La parola “guerra” è spesso associata al coronavirus come metafora per dare conto della gravità della sua minaccia. Molti hanno speso tante parole per spiegare perché gli italiani non dovrebbero paragonare la lotta contro la pandemia in corso a una guerra. La logica sottostante a molte di queste argomentazioni consiste nel ricordare ai lettori che sono persone privilegiate che vivono in paesi privilegiati e che non sanno cosa sia una guerra vera. Tuttavia quando si parla di una guerra vera, per esempio in Libia, quella stessa logica viene capovolta e si sottolinea che il virus, secondo questa interpretazione, è probabilmente più pericoloso della guerra.
Sono nato e cresciuto in un paese dove i diritti umani sono uno strano concetto. Conosco l’odore della morte, ancora oggi lotto contro la stretta che mi prende allo stomaco e mi sforzo di non vomitare ogni volta che ci ripenso. E come molti altri libici mi sono trovato sotto il fuoco incrociato, mi sono fermato ogni giorno ai posti di blocco con gli occhi fissi sulla canna di un fucile e niente che mi separasse dalla morte se non lo scatto di un dito. Sono stato costretto a restare chiuso in casa per settimane, parecchie volte all’anno, senz’acqua né elettricità e ho passato ore a sentire il pavimento tremare e le finestre aprirsi di schianto dopo un’esplosione vicina. So cos’è la paura pura, so cos’è il dolore e, fidatevi di me, sopra ogni altra cosa so cos’è la guerra. E tuttavia se qualcuno, per esempio un medico a Bergamo, usa la parola “guerra” per descrivere la sua lotta contro la pandemia, rispetterò e comprenderò la sua metafora. Quando i medici sono costretti ad applicare modalità di triage da tempo di guerra hanno il diritto di chiamarla guerra.
Stiamo attraversando tutti un periodo in cui i più saggi tra noi sono confusi, e confuso è il confine tra giusto e sbagliato. È come se vivessimo dentro un infinito episodio di Black mirror intitolato “La sopravvivenza dei più ricchi”. Un proverbio libico dice: solo chi entra nel fuoco sa cosa si prova. Sarà anche vero che stiamo entrando tutti quanti all’inferno, ma perfino l’inferno di Dante aveva diversi gironi.
Aprile è il più crudele dei mesi, genera
lillà dalla morta terra, mescola
ricordo e desiderio, stimola
le sopite radici con la pioggia primaverile.
(T.S. Eliot, La terra desolata)
(Traduzione di Giusy Muzzopappa)