Marina Ito e Shoko Kojima hanno sempre voluto avere dei figli. Entrambe si identificano come lesbiche. Per diventare madri erano convinte di dover scegliere tra vivere in modo autentico la loro sessualità o rassegnarsi a stare con un uomo.

Eppure, quando tre anni fa hanno cominciato a frequentarsi, i social network, e in particolare Twitter, brulicavano di account di coppie lesbiche che condividevano la loro esperienza di genitrici. “Vedendo quelle storie abbiamo capito che anche noi potevamo avere le vite che avevamo sempre desiderato, stare insieme e avere dei figli”, racconta Kojima che, come Ito, ci ha chiesto di usare uno pseudonimo per proteggere la privacy della sua famiglia. “È stato un sogno diventato realtà”.

L’anno scorso la coppia di Tokyo è andata negli Stati Uniti, dove Kojima aveva vissuto da piccola, per sottoporsi alla fecondazione in vitro usando lo sperma di un donatore. Ito ha partorito la loro bambina in primavera, ed entro quest’anno anche Kojima vorrebbe provare a rimanere incinta grazie allo stesso donatore.

Creare una rete
Twitter ha continuato a essere una miniera d’informazioni per questa coppia che cerca di navigare in quelle che di fatto sono acque sconosciute: crescere un bambino in un paese dove le famiglie omosessuali sono in larga misura invisibili. “È molto rassicurante vedere che altre persone vivono questioni come il coming out”, afferma Kojima. Anche se lei non ha ancora rivelato il suo orientamento sessuale agli amici più stretti o ai familiari, sa che il momento si sta inevitabilmente avvicinando. Ito invece ha già raccontato di sé alla maggior parte delle persone presenti nella sua vita.

In Giappone esiste solo una banca del seme e pochissime strutture sanitarie accettano di lavorare con coppie non eterosessuali e non sposate

La coppia è rimasta sollevata nel vedere che sia l’ostetrica sia lo staff dell’ospedale dove Kojima ha partorito erano cordiali e amichevoli. “Erano sinceramente interessati a sapere di più sui problemi che stavamo affrontando in quanto famiglia omogenitoriale”, racconta Ito. “Suppongo che anche in altri ospedali ci sia un atteggiamento altrettanto aperto”.

La coppia fa parte dell’organizzazione Kodomap, la cui missione è quella di creare una rete e un contesto di accettazione sociale in Giappone per le persone lgbt+ che hanno già figli o che sperano di averne in futuro. Secondo la direttrice di Kodomap, Satoko Nagamura, le famiglie non eterosessuali in Giappone devono affrontare ostacoli impegnativi, a partire dalle possibilità di creare una famiglia.

Mancanza di comprensione
Per esempio, in molti paesi le donne omosessuali si rivolgono alle banche del seme per individuare dei donatori, mentre in Giappone esiste una sola struttura di questo tipo. Ci sono inoltre pochissime strutture mediche che accettano di lavorare con clienti che non siano coppie eterosessuali sposate. Questo a causa delle norme sulle procedure di fecondazione assistita, che in Giappone sono molto restrittive. Alla luce di queste difficoltà, molte donne omosessuali in Giappone si rivolgono a banche del seme all’estero, o al mercato clandestino interno al paese.

“Su internet si trovano offerte rivolte alle donne che vogliono rimanere incinte. Molti uomini offrono il loro sperma o rapporti sessuali in cambio di un compenso”, afferma Nagamura. “I rischi associati a questa pratica sono enormi a causa della mancanza di regolamentazione, non ultimo quello di contrarre malattie sessualmente trasmissibili”. In Giappone sta per essere approvata una legge che dovrebbe regolamentare la genitorialità e aprire un dibattito formale su chi al momento è costretto a vivere in un limbo, tra cui le famiglie monoparentali e le coppie omosessuali. “Ecco per cosa stiamo lottando: il diritto di tutte le donne a poter fare delle scelte sicure al momento di creare una famiglia”.

Le persone non eterosessuali aspettano un riconoscimento legale dei loro diritti da ormai troppo tempo

Nagamura e la sua partner, Mamiko Moda, hanno avuto un figlio alla fine dello scorso anno, usando il seme donato da un amico fidato. Hanno fatto domanda per un certificato di famiglia al municipio di Adachi, a Tokyo, il primo, e uno dei pochi in tutto il paese, a riconoscere le famiglie lgbt+ con figli. La coppia ha insistito per vedersi riconosciuto lo status di famiglia dopo le osservazioni offensive di un deputato locale nei confronti di chi non è eterosessuale. In base al sistema, enti come scuole, agenzie immobiliari e strutture mediche sono incoraggiati a riconoscere a chi è in possesso del certificato gli stessi diritti delle famiglie tradizionali che godono di protezione legale. Altre duecento amministrazioni locali in tutto il paese danno la possibilità di avere un certificato di unione civile che conferisce alle coppie un riconoscimento simile. L’ultima è Tokyo, che dovrebbe lanciare questo sistema a novembre. È una tendenza che dà speranza e si riflette nelle vivaci parate del pride organizzate in un numero crescente di città in tutto il Giappone.

Tuttavia, persiste una mancanza di comprensione nei confronti delle persone lgbt+, molte delle quali continuano ad avere difficoltà nel fare coming out con familiari e datori di lavoro. Il Giappone non ha ancora una legge contro le discriminazioni, per cui i certificati di famiglia o di unione civile rimangono in larga misura gesti simbolici, privi di una valenza legale. Molti attivisti denunciano che le persone non eterosessuali aspettano un riconoscimento legale dei loro diritti da ormai troppo tempo.

Le coppie di uomini gay non possono adottare figli e per diventare padri devono trovare donatrici di ovuli e madri disposte alla gestazione per altri

Rainbow family è un’altra organizzazione che si batte per i diritti delle persone lgbt+, in particolare per quelle con figli. Il gruppo è stato creato nel 2010 da Haru Ono, che ha creato un sito per mettere in contatto le famiglie queer nel tentativo di superare il senso d’isolamento che avvertiva in quanto madre in una relazione omosessuale. Con la compagna, Asami Nishikawa, ha cresciuto tre bambini avuti da precedenti matrimoni con uomini. Quando, diversi anni fa, a Ono è stato diagnosticato un cancro al seno, la coppia è diventata ancora più consapevole della propria precaria condizione legale.

Ono e Nishikawa hanno partecipato a un’azione collettiva per chiedere al governo di riconoscere il matrimonio omosessuale e tutti i diritti che questo comporta, compresa la protezione per le famiglie con bambini. La causa, avviata da tredici coppie omosessuali, è stata presentata ai giudici di diversi tribunali in tutto il Giappone nella speranza di poter arrivare all’approvazione di una legge nazionale. Nell’ambito di quest’azione collettiva, nel marzo 2021 il tribunale del distretto di Sapporo ha stabilito che l’incapacità di ricondurre le coppie omosessuali all’interno del quadro normativo del matrimonio legale viola il principio costituzionale di uguaglianza davanti alla legge. “È stato un verdetto storico e speriamo in esiti simili anche a Osaka e a Tokyo”, afferma Ono.

Oltre alle campagne sui diritti legali, Rainbow family organizza molti eventi di sensibilizzazione, tra cui un picnic annuale durante la settimana del pride arcobaleno a Tokyo. Agli eventi partecipano famiglie provenienti da tutto il paese e si tengono una serie di dibattiti online su temi legati alla genitorialità come la visibilità lgbt+, le famiglie internazionali, come crescere figli adolescenti e altro. “Abbiamo lanciato questi dibattiti online a causa delle restrizioni imposte dalla pandemia, che hanno reso difficili gli incontri di persona, ma abbiamo capito che sono molto efficaci per il nostro obiettivo di ridurre l’isolamento, perciò pensiamo di continuare”, afferma Ono. “Ci sono tanti tipi di famiglie in tutto il paese che sono entrate nella nostra rete: coppie omosessuali che sperano di adottare, genitori single, uomini trans che partoriscono, lesbiche e gay con figli e perfino alleati etero”.

Una questione che di recente ha destato particolare attenzione, racconta Ono, è quella dei padri gay. La legge giapponese vieta alle coppie omosessuali di adottare bambini, perciò gli uomini gay che desiderano diventare padri devono affrontare difficoltà ancora maggiori rispetto alle coppie di donne omosessuali, poiché devono trovare sia delle donatrici di ovuli sia delle madri disponibili alla gestazione per altri. “Le madri lesbiche sono aumentate in modo esponenziale, mentre fino a oggi i padri gay non hanno ricevuto alcuna attenzione”, dice Ono. “Le cose in realtà sono cambiate quando un giapponese che vive in Svezia e ha avuto un bambino con il marito svedese grazie alla gestazione per altri ha pubblicato un libro intitolato Futari papa (Due papà). Nei confronti dei figli di uomini gay in Giappone l’atteggiamento prevalente era quello di pietà o dispiacere, ma questo libro ha mostrato qualcosa di molto diverso”.

“Agli occhi dei nostri bambini stiamo normalizzando la nostra famiglia. Adesso sono molto orgogliosi di avere due mamme”

Masaki, che fa parte di Rainbow family e ha chiesto di usare uno pseudonimo, sognava di avere dei figli. Dopo aver vissuto per molti anni negli Stati Uniti e aver conosciuto uomini gay che avevano avuto figli grazie alla gestazione per altri, il desiderio è cresciuto. Figlio di una madre single, Masaki non avverte la stessa pressione ad avere una famiglia tradizionale a cui invece sono sottoposti molti gay in Giappone. “Dato che volevo dei figli, il mio obiettivo era trovare la persona giusta prima dei trent’anni e avere tre bambini prima dei trentacinque”, ricorda. “Quando però mi sono trovato a essere ancora single a quarant’anni, ho deciso di proseguire nel mio viaggio verso la gestazione per altri da solo”. Masaki è tornato negli Stati Uniti e ha trovato una donatrice di ovuli e una madre surrogata che aveva valori simili ai suoi. Dopo aver avuto un maschio la scorsa estate, sta considerando l’ipotesi di avere un secondo figlio con la stessa donatrice.

“Mio figlio mi dà ogni giorno lezioni di vita, è come se fosse lui a crescere me”, racconta Masaki sorridendo. È entrato nell’associazione Rainbow family per trovare una comunità insieme ad altre famiglie lgbt+. Ora ha fondato il gruppo online “papà gay”, dove condivide la sua esperienza con altri uomini gay che sperano di avere dei figli, attraverso la gestazione per altri o in modi diversi. “Quando sono andato al picnic di Rainbow family, in aprile, durante la settimana del pride, mi sono guardato intorno e ho visto tantissimo amore”, ricorda Masaki. “Mi ha rassicurato molto e mi ha reso fiducioso sulla possibilità di essere un genitore gay in Giappone”.

L’organizzatrice di Rainbow family, Kumi Matsumoto, e la sua compagna canadese Ngoc Phan stanno crescendo il figlio Luke, dieci anni, e la figlia Alexia, otto, nella prefettura di Kumamoto, dove Matsumoto è cresciuta. Inizialmente la coppia non era sicura di poter parlare apertamente della propria famiglia non tradizionale a scuola e con i vicini. Qualcuno le aveva avvertite che i figli avrebbero corso il rischio di essere bullizzati. Dopo aver conosciuto il preside di una scuola vicina che le ha incoraggiate a parlare, hanno deciso di aprirsi, e questo ha instillato nei loro figli una forte fiducia in se stessi. “Agli occhi dei nostri bambini stiamo normalizzando la nostra famiglia. Adesso sono molto orgogliosi di avere due mamme”, racconta Matsumoto. “Gli abbiamo spiegato che se una persona reagisce in modo negativo è un problema suo, e questa reazione non ha nulla a che fare con loro”.

Oltre al suo lavoro con Rainbow family, Matsumoto si è anche impegnata in attività locali per i diritti lgbt+ con iniziative di sensibilizzazione nelle scuole e con il governo. “Se stai in silenzio le cose non cambieranno mai”, dice. “I cambiamenti sociali avvengono se alzi la voce e ci metti la faccia”. Un’altra convinta sostenitrice di questo tipo di azione sociale è Yuli Kim, coreana in Giappone. È nata e cresciuta a Tokyo e oggi vive ad Amsterdam con Benessa Defend, la sua compagna statunitense. La coppia ha tre figli, due femmine di sette e tre anni e un maschio di un anno, concepiti grazie a un donatore olandese. Dopo essersi trasferita nei Paesi Bassi e aver conseguito un master in gestione d’impresa, Kim ha cominciato a lavorare per un’agenzia pubblicitaria. Nel 2019 si è messa in proprio come consulente sulle politiche antidiscriminazione e sulla creazione di un ambiente lavorativo inclusivo per le aziende nei Paesi Bassi. Ha poi cominciato a scrivere articoli su questi argomenti per il sito del Tokyo rainbow pride e adesso fa formazione anche per aziende giapponesi.

A Kim e sua moglie piacerebbe vivere per uno o due anni in Giappone, ma esitano per l’assenza di protezione legale. “Se i bambini dovessero finire in ospedale, non avrei nessun diritto in quanto genitore”, spiega Defend. “Non ci sono garanzie né sicurezza”. Anche se Kim è felice di tornare in Giappone per far visita ai familiari, racconta di come sia molto più facile vivere in un paese dove non si è definiti dalla propria identità. “In Giappone sono sempre consapevole della mia identità di coreana o lesbica”, racconta. “Razzismo e omofobia esistono anche nei Paesi Bassi, ma qui per la maggior parte del tempo sono semplicemente Yuli”.

Anche Ito e Kojima dicono di voler crescere i loro figli in un ambiente diverso e inclusivo e per questo è probabile che li iscriveranno a scuole internazionali. Hanno però fiducia nel fatto che il Giappone sia sulla strada giusta verso un cambiamento positivo. “In Giappone sono decine le famiglie lesbiche che hanno figli, contando solo quelle che conosciamo tramite Twitter”, afferma Ito. “Ci sono sicuramente moltissime altre famiglie come la nostra lì fuori e, mano a mano che i nostri figli cresceranno, il governo dovrà cominciare a riconoscerci”.

(Traduzione di Giusy Muzzopappa)

Questo articolo è uscito sul Japan Times. Internazionale ha una newsletter che racconta cosa succede in Asia. Ci si iscrive qui.

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