Rispetto a paesi come la Francia, la Germania o gli Stati Uniti, sembra che in Italia il covid-19 sia più spesso mortale. Forse è così, e forse si muore di più al nord che al sud. Ma per ora non è possibile affermarlo con certezza, perché mancano troppe informazioni, e non ci si può basare solo sui dati della cosiddetta letalità apparente, come invece si tende a fare.
Il rapporto tra morti e contagi confermati è tenuto sotto controllo per monitorare la diffusione dell’epidemia e per intervenire, se necessario, adottando misure di contenimento del contagio. Ma usare questo rapporto come termometro della situazione presenta dei grossi limiti. Si stratta di un parametro in apparenza semplice da calcolare, che però può essere fuorviante, perché dipende dalla capacità del sistema di misurare in modo accurato sia i decessi per covid-19 sia il numero reale delle persone infettate. Servono infatti dati omogenei, aggiornati e condivisibili per ottenere stime affidabili e confrontabili, per studiare l’andamento reale della pandemia e per fornire informazioni utili a chi deve prendere decisioni politiche.
Per prima cosa è importante distinguere tra tasso di letalità e tasso di mortalità. Spesso questi due termini vengono confusi, quando invece fanno riferimento a due stime distinte che danno informazioni diverse sulla malattia: il tasso di letalità stima quante persone muoiono tra quelle che hanno contratto il virus, mentre il tasso di mortalità misura quante persone esposte al virus sono morte sulla popolazione media di un paese o di una regione. Quello che cambia nel calcolo è quindi il denominatore, cioè la cifra che viene rapportata al numero delle persone decedute a causa del covid-19.
Letalità apparente e letalità plausibile
In epidemiologia il tasso di letalità viene generalmente usato come misura della gravità della malattia, indicando la probabilità di morire per quella malattia. Si basa sui dati cumulativi che si ottengono sommando i decessi per e con il covid-19 e dividendoli per i casi confermati da test diagnostici dal primo giorno dell’insorgenza dell’epidemia. Il valore che si ottiene dipende dalla finestra temporale di osservazione e dà una stima della letalità definita “apparente”. Quanto questa stima sia veritiera dipende dalla capacità di tenere traccia di tutti i decessi e di tutte le persone contagiate.
L’unico modo sicuro per contare il numero reale di casi covid-19 sarebbe quello di testare l’intera popolazione di persone contagiate, sintomatiche e non. Ma, soprattutto quando il numero di casi cresce rapidamente, può risultare impossibile sottoporre a tampone tutte le persone e si procede per gravità limitando i test ai casi più critici. Per esempio, nella prima fase dell’epidemia in Lombardia la gran parte dei tamponi è stata effettuata in ospedale tra i ricoverati con sintomi già importanti e quindi in un campione non rappresentativo della situazione regionale, perché con un maggior numero di forme gravi rispetto alla media della popolazione che non includeva i casi asintomatici e paucisintomatici (cioè con sintomi molto lievi). Il tasso di letalità apparente era di circa il 16 per cento, di gran lunga sovrastimato.
Per migliorare la stima e avere un’idea realistica di quante persone contagiate dal virus perdano realmente la vita si può calcolare la letalità “plausibile”, che al denominatore tiene conto anche dei possibili contagi non intercettati dai test diagnostici. La stima del numero di contagiati totale però è molto complicata e non immediata. “L’unico modo per avere al denominatore una stima il più possibile veritiera è attraverso le indagini di sieroprevalenza sulla popolazione”, spiega Antonio Clavenna, responsabile dell’Unità di farmacoepidemiologia dell’Istituto Mario Negri di Milano. “Il numero delle persone che hanno sviluppato gli anticorpi è quello più vicino alla realtà del totale dei casi, sebbene anche questo possa essere sottostimato rispetto al numero reale, perché alcuni non hanno sviluppato anticorpi oppure li hanno sviluppati e con il tempo sono scomparsi”. I dati di sieroprevalenza raccolti dall’Istat su un campione di 65mila italiani, e pubblicati a luglio, indicano che il 2,5 per cento degli italiani era entrato in contatto con il virus a fronte dello 0,4 per cento di casi confermati positivi con i tamponi.
Il conteggio dei decessi
Oltre ai dati sui contagi, anche quelli sul numero di decessi dovuti al covid-19 incidono sull’accuratezza della stima della letalità plausibile. L’Istituto superiore di sanità suggerisce indicazioni precise sulla definizione di un decesso dovuto al covid-19. Non è sufficiente la positività al virus. Se una persona positiva muore d’infarto è necessaria la presenza di specifiche condizioni per attribuire al covid-19 la causa della morte. Ma è impensabile intercettare tutti i decessi: alcune persone potrebbero essere morte di covid, ma non sono conteggiate perché non hanno mai fatto il tampone. Soprattutto nella prima fase dell’epidemia, non sono state considerate molte morti avvenute in casa o nelle residenze sanitarie assistenziali (rsa). Oppure alcune morti sono sfuggite perché il paziente non presentava sintomi attribuibili al covid-19.
L’eccesso di mortalità totale è sicuramente l’indicatore più solido per monitorare l’impatto sulla salute dell’epidemia
“Il numero di decessi è sicuramente sottostimato, ma probabilmente di un fattore minore rispetto alle persone infette. Il numero dei decessi potrebbe essere in media sottovalutato di un fattore vicino a due o più piccolo, mentre il numero degli infetti è probabilmente sottostimato di una quantità molto grande, che ci aspettiamo possa dipendere fortemente dal tempo”, spiegano su Le Scienze i fisici Giorgio Parisi, Luca Leuzzi, Enzo Marinari e Federico Ricci-Tersenghi dell’università di Roma La Sapienza.
L’eccesso di mortalità
“Il valore reale della letalità non si può conoscere e la stima perfetta non esiste”, spiega Antonio Clavenna. “Ma c’è un modo per poter stimare il dato veritiero, con tutti i limiti e le incertezze, e avvicinarsi alla stima perfetta della letalità: mettere al numeratore l’eccesso di mortalità e al denominatore le persone positive agli anticorpi contro il coronavirus”. L’eccesso di mortalità confronta tutte le morti, per qualsiasi causa, avvenute in una certa settimana o mese con quelle che, secondo calcoli statistici, si sarebbero verificate in assenza della pandemia, in genere facendo riferimento alla media degli ultimi cinque anni. Questo dato può fornire un quadro non distorto dell’impatto della pandemia e della sua gravità.
Diversi paesi si sono dotati di sistemi di sorveglianza rapida della mortalità, basati su campioni più piccoli ma rappresentativi. “L’eccesso di mortalità totale è sicuramente l’indicatore più solido per monitorare l’impatto sulla salute dell’epidemia, perché non risente delle criticità legate alla capacità di identificare le morti per covid-19”, spiega Paola Michelozzi, coordinatrice del Sistema di sorveglianza nazionale della mortalità giornaliera (Sinmg) e direttrice dell’unità di epidemiologia ambientale del dipartimento di epidemiologia del Lazio. “L’eccesso di mortalità totale è in grado di fornire un’indicazione dell’impatto complessivo del covid-19, non solo dei decessi attribuiti direttamente alla malattia, ma anche degli effetti indiretti dell’epidemia, per esempio associati alla contrazione dell’offerta sanitaria dovuta alle misure di contenimento del contagio o a ritardi nelle cure. In diverse regioni italiane durante il lockdown si è osservato un minore ricorso ai servizi di emergenza per condizioni anche gravi, come ictus e infarto del miocardio, che può avere avuto ricadute in termini di mortalità”.
Nella fase attuale, i grafici e le tabelle dei report dei sistemi di sorveglianza rapida della mortalità totale sono molto utili per cogliere gli scostamenti rispetto agli anni precedenti, tracciare l’andamento della pandemia in luoghi diversi e fare dei confronti di massima tra aree geografiche. Con dati completi e precisi sulle cause di morte, i ricercatori potranno analizzare l’efficacia dei lockdown e degli altri interventi in ciascun paese osservando il livello di mortalità, diretta e indiretta, scrive Nature. Ma farlo ora è rischioso: la pandemia ha aumentato drasticamente la pressione sui sistemi di registrazione delle morti, e così pure sul rigore con cui sono esaminate, e certe statistiche richiedono mesi di lavoro. Secondo Andrew Noymer, demografo dell’università della California a Irvine, “non abbiamo una distanza sufficiente, perché siamo ancora nella fase di alta marea. È come cercare di prevedere quanta pioggia cadrà in totale mentre siamo nel bel mezzo di un uragano. La mortalità si capisce meglio a posteriori”.
I ritardi sui dati
Paola Michelozzi spiega che la principale criticità sono i ritardi nella disponibilità dei dati sulla mortalità. “Ma l’Istat ha fatto grandi passi avanti e in relazione all’epidemia in corso ha reso disponibili online i dati della mortalità totale con soli due mesi di ritardo. Questo ha consentito una valutazione dell’impatto dell’epidemia di covid-19 in Italia nella fase 1, e in soli tre mesi (marzo-maggio) sono stati stimati quasi 50mila decessi in eccesso, circa il 40 per cento in più dei decessi è stato notificato come covid-19”. Oltre ai dati Istat, il Sistema rapido di sorveglianza della mortalità giornaliera (Sismg) del ministero della salute attivo in 32 grandi aree urbane, con dati molto tempestivi consolidati nell’arco di una settimana, consente già di poter confrontare la prima e la seconda ondata.
I risultati raccolti nel rapporto Sismg 1 settembre - 1 dicembre evidenziano che l’aumento della mortalità osservato a partire da ottobre è sovrapponibile in termini di eccesso totale alla prima ondata (rispettivamente +35 per cento e +31 per cento), nonostante le differenze. La prima fase dell’epidemia, infatti, ha colpito soprattutto l’Italia del nord, mentre la seconda ha interessato, anche se con diversa intensità, tutto il territorio nazionale. Ma le città del nord sono quelle che continuano a registrare il maggior aumento di mortalità: nel mese di novembre, per esempio, l’eccesso di mortalità è stato pari al 73 per cento nelle città del nord e del 46 per cento nelle città del centrosud.
La raccolta e l’analisi dei dati sulla mortalità generale richiede tempi lunghi. Ma in seguito all’emergenza covid i servizi statistici di molti paesi hanno velocizzato la pubblicazione dei dati sulla mortalità generale, che sono essenziali per seguire e confrontare l’andamento dell’epidemia nei diversi paesi. Questi dati, insieme a quelli dei tamponi, degli screening di sieroprevalenza e dei ricoveri raccolti a livello ragionale, provinciale e comunale sono fondamentali per studiare l’epidemia ed intervenire preventivamente per contenere la diffusione del virus. “A mio parere personale”, dice Clavenna, “servirebbero più dati su dove e come avvengono i contagi. E servirebbero studi ad hoc su campioni rappresentativi per individuare quali sono i contesti e i luoghi a maggior rischio di contagio e quali le misure da adottare nel lungo termine, in modo che siano il più possibile accettabili e sostenibili nel tempo per la popolazione e per il paese”.
In una lettera aperta al ministro della salute e al presidente del consiglio, l’Associazione italiana di epidemiologia ha sollecitato l’adozione di strumenti operativi da usare in modo omogeneo in tutte le regioni per seguire l’evoluzione locale della pandemia e prendere contromisure basate su dati e criteri omogenei. “La rapidità della diffusione della pandemia richiede l’adozione di contromisure urgenti, che possono interferire con interessi e libertà individuali”, si legge nella lettera. “Nella prospettiva di dover gestire una lunga fase di convivenza con il virus, è essenziale la collaborazione dei cittadini, che si ottiene rispettando il diritto irrinunciabile delle persone a essere adeguatamente informate delle scelte di chi governa, in particolare è necessario comunicare su quali elementi razionali e su quali dati sono state compiute. Per questo i principali indicatori che stanno alla base delle decisioni del governo nazionale e di quelle regionali devono essere resi del tutto trasparenti e ancora più tempestivi”.
“In Lombardia si osserva una letalità che apparentemente è più alta, dopodiché non è detto che sia così”
La richiesta della trasparenza e condivisione di dati omogenei e aggiornati non viene solo dagli “addetti ai lavori”, i ricercatori, ma anche da tanti cittadini e cittadine. La campagna italiana #datiBeneComune, che conta più di 40mila firme e 162 organizzazioni promotrici, chiede al governo dati aperti e machine readable sull’emergenza covid-19 per monitorare da vicino la situazione e poterla gestire al meglio.
Il covid-19 è più letale in Lombardia rispetto ad altre regioni italiane?
“In questo momento non lo possiamo affermare, se non affidandoci a dati poco attendibili e non confrontabili”, risponde Antonio Clavenna. “In Lombardia si osserva una letalità che apparentemente è più alta, dopodiché non è detto che sia così. Per fare un confronto dovremmo avere dati assoluti confrontabili. Ma le regioni hanno adottato strategie diverse, per esempio, nella prima fase dell’epidemia, il Veneto ha fatto molti più tamponi rispetto alla Lombardia. Quindi è presumibile che il numero dei contagi in Lombardia sia stato sottostimato e di conseguenza la letalità sovrastimata”. I positivi al tampone in Lombardia erano poco meno dell’1 per cento. Ma i dati Istat di luglio danno una stima più vicina alla realtà dei contagi con un 7 per cento di sieroprevalenza (persone che hanno gli anticorpi) nella popolazione lombarda rispetto alle media italiana del 2,5 per cento.
Questi dati indicano che nella prima ondata epidemica la Lombardia è stata la regione con la più alta incidenza di casi nella popolazione, con una sieroprevalenza nella provincia di Bergamo del 25 per cento, che sale addirittura al 38,5 per cento secondo un’analisi condotta dall’Istituto Mario Negri di Bergamo in un campione più selezionato che è apparsa su The Lancet. Secondo uno screening sierologico condotto a luglio dall’Agenzia di tutela della salute di Bergamo in val Seriana quasi un abitante su due ha gli anticorpi contro il coronavirus. “Per cui anche all’interno della stessa Lombardia l’epidemia ha avuto un andamento diverso a seconda dei contesti”.
In generale è plausibile che proprio nelle regioni più colpite dal virus il sistema sanitario sotto stress non sia in grado di censire tutti i decessi tra le persone positive al sars-cov-2 né di monitorare il numero reale di contagi. E proprio in quelle regioni il parametro della letalità è più falsato. Senza una raccolta di dati secondo criteri univoci non si posso trarre informazioni essenziali e utili dal confronto dei tassi di letalità stimati nelle diverse regioni.
Il confronto tra i dati sulla letalità a livello globale
Fin dall’inizio dell’epidemia l’Italia ha registrato tassi di letalità per il covid-19 particolarmente elevati, soprattutto nella prima fase, con stime anche intorno al 10 per cento. Gli ultimi dati della Johns Hopkins University sulla mortalità in diversi paesi del mondo (report del 22 dicembre) evidenziano che l’Italia è tra i paesi con la letalità più elevata (3,5 per cento), con un tasso di mortalità pari a 113 per centomila persone, secondo in Europa solo al dato del Belgio e poco superiore a quello di Spagna e Regno Unito. Gli Stati Uniti, che contano il maggior numero assoluto di decessi, si trovano al sedicesimo posto per tasso di letalità, con l’1,8 per cento. Ma trarre conclusioni confrontando semplicemente i tassi di letalità e di mortalità tra paesi è azzardato, perché entrano in gioco molti fattori e diverse varianti.
“Anche se si tratta di dati ufficiali, i dati di letalità o il tasso di mortalità per il covid-19 potrebbero essere distorti. Questo perché ciascun paese può utilizzare diverse definizioni di caso di decesso, oltre ad avere una diversa strategia di offerta del test diagnostico con conseguente diversa capacità di identificare i casi di malattia, che possono essere alla base delle differenze osservate tra paesi e tra aree all’interno dello stesso paese. Un altro determinante importante può essere la capacità del sistema sanitario di far fronte all’emergenza sanitaria e la capacità di gestire flussi molto elevati di pazienti”, commenta Paola Michelozzi. “Naturalmente ci sono anche differenze demografiche e di salute che possono determinare una maggiore vulnerabilità di determinate popolazioni e spiegare differenze di mortalità”.
L’Italia conta un’alta percentuale di anziani che sono più fragili e che incidono sul tasso di letalità: se i dati della letalità vengono scorporati e confrontati come se tutti i paesi avessero la stessa percentuale di popolazione anziana, vedremmo tassi di letalità simili. In più, rispetto ad altri paesi europei, l’Italia ha un maggior carico di malattie croniche o di condizioni di salute non ottimali negli anziani. Questo vuol dire che il rischio di morire potrebbe essere leggermente più elevato in Italia che in altri paesi. “Anche le differenze culturali vi contribuiscono”, aggiunge Antonio Clavenna. “Nei paesi nordici spesso gli anziani vivono isolati dal resto della famiglia, mentre nel contesto italiano gli anziani sono maggiormente a contatto con figli e nipoti, quindi è più facile che essi siano contagiati in Italia rispetto alla Finlandia o alla Germania. Vanno valutati più fattori per inquadrare la situazione italiana rispetto a quella di altri paesi”.
I dati sulla mortalità della sorveglianza Sismg e del network europeo EuroMomo, già collaudati in occasione di eventi estremi e picchi influenzali, permettono di effettuare confronti geografici dell’eccesso di mortalità totale per classi di età e genere. Per esempio, si legge su Scienza in rete, da questi dati è emerso un eccesso complessivo di 185.287 decessi nei 24 paesi europei, che ha interessato soprattutto gli ultrasessantacinquenni, ma anche le fasce più giovani 45–64 e 15–44 anni.
La letalità cambia nel tempo
Il tasso di letalità apparente non è una costante, ma cambia nel tempo e anche geograficamente, a seconda della composizione della popolazione. La variabilità dipende dai cambiamenti che avvengono nella finestra temporale di osservazione, come l’introduzione di nuovi protocolli terapeutici, una maggiore esperienza clinica, la preparazione del sistema nell’affrontare l’emergenza, l’arrivo di un vaccino. Ma la maggiore variabilità nella fase esponenziale è dovuta al conteggio dei casi positivi che a sua volta può cambiare a seconda del protocollo di sorveglianza adottato. Per esempio, nei primissimi giorni dell’epidemia covid-19 il tasso di letalità apparente in Italia era di circa il 3 per cento per poi scendere fino al 2 per cento il 1 marzo, dopodiché è aumentato gradualmente fino a raggiungere il 9,9 per cento nell’arco di un mese.
Il cambio di rotta del 1 marzo, si legge sul sito dell’Istituto per gli studi di politica internazionale, ha coinciso con il cambio di politica sui tamponi richiesto alle regioni dal governo, da un lato per adeguarsi alle raccomandazioni dell’Organizzazione mondiale della sanità, dall’altro per non sovraccaricare i laboratori autorizzati ad analizzare i risultati dei tamponi in una fase di crescita esponenziale dei contagi. Meno test significa sottostimare il numero dei contagi e, a parità di decessi, sovrastimare di molto la letalità.
Con modelli matematici, i fisici Parisi, Leuzzi, Marinari e Ricci-Tersenghi spiegano che “un regime di crescita esponenziale provoca una sottostima della letalità e quando la crescita esponenziale si arresta, allora la letalità apparente deve aumentare e avvicinarsi a un plateau. L’appiattimento della letalità apparente, dipendente dal tempo, è quindi un segnale che l’epidemia è in uno stato stabile, e che la sua velocità di propagazione ha smesso di crescere”.
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