Le lotte e la paura di chi smista i nostri pacchi nell’epidemia
Se c’è un settore che non soffre i contraccolpi dell’emergenza sanitaria è quello del commercio online. Da quando le persone sono chiuse in casa, tutta la logistica dei trasporti e delle spedizioni lavora a ritmo accelerato per rifornire aziende, supermercati, farmacie. “Qui lavoriamo come sotto Natale”, dice Ibrahim (il nome è di fantasia), addetto a caricare e scaricare merci per la Gls a Riano, un piccolo comune a una trentina di chilometri a nord di Roma. “Distanze di sicurezza? Impossibile, qui siamo novanta persone e lavoriamo uno vicino all’altro. Hanno ‘sanificato’ il magazzino in cinque minuti, ridicolo. A noi hanno dato solo mascherine di carta, non abbiamo neppure i guanti adatti. Siamo esposti”.
Interpellata per questo articolo, la Gls sostiene di aver adottato tutte le misure indicate dal governo e dai protocolli firmati con le parti sociali il 14 e il 20 marzo. Ma i racconti dei lavoratori come Ibrahim dipingono una situazione non così rassicurante. Torniamo a lui per capire meglio.
Il suo è un lavoro notturno. Comincia tra le 21 e le 22, finisce alle 7.30 o alle 8 del mattino dopo. Bisogna scaricare scatoloni e pacchi dai camion in arrivo; i pacchi vanno poi smistati in base alla destinazione e infine caricati su altri camion e furgoni che li consegneranno. “Ogni giorno prendiamo i mezzi pubblici per venire al lavoro: chi da Roma, chi da Rieti, da Morlupo, perfino da Latina”. In questi giorni il tragitto sembra ancora più lungo, dice, “perché abbiamo paura: stiamo mettendo a rischio noi e le nostre famiglie”. Il lavoro però è aumentato, spiega. “Ci dicono che i magazzini come il nostro restano aperti perché smistano beni essenziali. Ma la gran parte dei pacchi che vediamo transitare portano marche di abbigliamento, cosmetici, cose che in un momento di emergenza non sono affatto indispensabili”.
Tra i lavoratori cresce il malumore. E tanti hanno deciso di fermarsi
Trasporti e logistica sono attività essenziali anche in tempi di emergenza sanitaria. Il decreto del 22 marzo, che sospende tutte le attività industriali e commerciali non essenziali, include tra le molte eccezioni anche i trasporti e i servizi di logistica: ovvero gli autotrasportatori, i magazzini che riforniscono i supermercati e gli alimentari, e i corrieri, che garantiscono le consegne del commercio online. “Ma bisogna intendersi”, osserva Luca Stanzione, segretario della Federazione dei lavoratori dei trasporti, la Filt-Cgil della Lombardia: “I corrieri sono servizi essenziali se trasportano i beni di prima necessità elencati nell’allegato al decreto, non altro”. Il 25 marzo un accordo tra il governo e i sindacati Cgil, Cisl e Uil ha ristretto il primo elenco, per la verità molto ampio. Secondo la Gls, “il commercio al dettaglio di qualsiasi prodotto effettuato via internet” è espressamente previsto dal primo decreto governativo, quello dell’11 marzo, e l’autorizzazione non è stata revocata dal successivo decreto del 22 marzo. Un’interpretazione che cozza con quella di Cgil, Cisl e Uil. I sindacati hanno interpellato il Ministero dello sviluppo economico per chiarire.
Anche i servizi essenziali – corrieri inclusi – devono comunque rispettare le norme di sicurezza definite dai protocolli d’intesa con i sindacati e dai decreti del governo. Ma sono davvero rispettate? “Ci sono casi scandalosi, aziende che non hanno fornito neppure le mascherine ai propri addetti”, spiega Alberto Violante, del sindacato SiCobas a Roma. “Altre hanno distribuito un minimo di protezioni, che però risultano carenti, e comunque il punto critico sono le distanze. Poi ci sono anche aziende che hanno disinfettato i locali e cercano di organizzare i turni degli addetti in modo da alternare le presenze”.
Dal Lazio alla Lombardia
Sta di fatto che tra i lavoratori cresce il malumore. E tanti hanno deciso di fermarsi. Non si tratta di sciopero, dice Violante, ma di “sospensione per autotutela”. “Stiamo rischiando la nostra salute”, dice Berane, che lavora come facchino in un’azienda di consegne e spedizioni vicino a Roma e preferisce usare un nome di fantasia per evitare ritorsioni. “La scorsa settimana abbiamo deciso che finché non ci garantiscono la distanza, la disinfestazione, le mascherine, noi non possiamo lavorare”.
Parla al plurale perché è una decisione condivisa da quasi tutti i suoi compagni di lavoro, per lo più aderenti al SiCobas o alla Unione sindacale di base (Usb). “Solo una decina di persone continua ad andare a lavoro. Dicono che non hanno paura del virus. Di sicuro hanno più paura di restare senza stipendio o che non gli rinnovino il contratto”. Aggiunge però che il magazzino funziona lo stesso: “Ho trovato addetti che non conoscevo, devono averli reclutati per sostituire chi si astiene. Ho visto che lavoravano a stretto contatto, ma quando l’ho fatto notare i responsabili del personale mi hanno risposto che la cosa non mi riguarda. Due giorni dopo ho ricevuto una lettera di sospensione”.
Spostiamoci (virtualmente) in Lombardia, la regione all’epicentro dell’epidemia di Covid-19. “Se vai sulle piattaforme di commercio online trovi che molti offrono la consegna gratuita. Per loro è un momento di grande crescita, perché le persone stanno a casa e ordinano. Ma dietro ci siamo noi”, dice Simona Carta, che lavora nel magazzino della Dhl a Liscate, in provincia di Milano. È il magazzino che assicura le spedizioni di telefoni e modem per conto di Vodafone e Wind. Carta è nel reparto che ritira gli apparecchi rotti da rimandare al produttore e riconsegna quelli riparati.
Anche qui il lavoro si è fatto più intenso. “Dicono di restare a casa, ed è giusto. Una collega è stata insultata dai vicini perché la vedevano uscire: come spiegarglielo che andava al lavoro? In ogni caso, qui siamo tutte a rischio. Le protezioni sono una barzelletta: due settimane fa hanno messo il gel disinfettante all’ingresso, un paio di giorni dopo ci hanno dato delle mascherine di garza e un paio di guanti a testa, di quelli sottili che in una mattina erano già strappati”. Tenere le distanze è praticamente impossibile: “Hanno parlato di dividerci in turni, ma poi non è successo”. Finché “lunedì 16 marzo abbiamo timbrato il cartellino come sempre, siamo entrate nel magazzino e siamo uscite”, racconta Carta, che è iscritta al SiCobas, mentre nel magazzino è rappresentata anche la Cgil. “Abbiamo deciso di astenerci dal lavoro finché non avremo i dispositivi necessari”.
“Le mascherine? Le abbiamo ordinate e stanno arrivando”, risponde un responsabile della Ucsa, la ditta di servizi per la logistica che gestisce la manodopera per la Dhl di Liscate (appaltare la gestione della manodopera a ditte esterne è un sistema comune tra i corrieri). Dunque da tre settimane Carta e i suoi colleghi lavorano senza mascherine. E le altre precauzioni? “Le distanze ci sono. Poi i lavoratori si lamentano, perché viene paura ad andare a lavorare, e si capisce”.
Il caso Amazon
“L’attività è frenetica e nei magazzini è impossibile rispettare le distanze”, riassume il sindacalista Luca Stanzione. Dice che il caso più complicato è quello di Amazon, “con cui risulta molto difficile interloquire sul protocollo di sicurezza”. Tanto che il 25 marzo Cgil, Cisl e Uil della Lombardia hanno chiesto ai prefetti un intervento urgente.
Ma non si tratta solo della Lombardia: “Abbiamo constatato che in tutti i magazzini Amazon le misure di tutela sono aleatorie e le distanze sono difficili da rispettare”, dice Danilo Morini, della Filt-Cgil nazionale: “Il volume degli ordini online è aumentato da quando i cittadini sono chiusi in casa. Ma all’aumento dell’attività non ha corrisposto un aumento delle misure di tutela, dalle mascherine alla distanza sul luogo di lavoro”. Per questo in diversi magazzini Amazon – a Piacenza, in Piemonte, nel Lazio, in Toscana – ci sono proteste e scioperi. “L’azienda applica a modo suo le norme, senza il confronto previsto dal protocollo sulla sicurezza siglato con il governo il 14 marzo”, aggiunge Morini. “Ad Amazon sono concesse cose che ad altri non sarebbero possibili. Il rischio è che si anteponga il profitto alla sicurezza dei lavoratori”.
Un allarme è scattato nel magazzino di Passo Corese, nel Lazio, dove venerdì 27 marzo una lavoratrice è risultata positiva al Covid-19. “E non stupisce”, osserva Massimo Pedretti, della Filt-Cgil del Lazio: “In quel magazzino lavorano 1.200 dipendenti Amazon e alcune centinaia di interinali: più di duemila persone. Solo la settimana scorsa, dopo uno sciopero, l’azienda ha cominciato a organizzare le postazioni per rispettare le distanze di sicurezza”. Non si sa se la lavoratrice è stata infettata al lavoro o altrove, “ma è ugualmente allarmante”, dice Pedretti. Ora è in permesso retribuito e la asl ha rintracciato i colleghi che possono essere stati in contatto con lei. “Solo lunedì mattina (il 30 marzo, ndr) la direzione aziendale ha detto che le mascherine sono obbligatorie. Finora le avevano ignorate”, osserva Pedretti.
Il gigante del commercio online respinge le accuse: “Dall’inizio dell’emergenza abbiamo aumentato le operazioni di pulizia in tutti i siti, introdotto la distanza di sicurezza minima e richiesto ai corrieri di restare a distanza di almeno un metro dai clienti quando effettuano le consegne”, dice Elena Cottin, addetta alle relazioni pubbliche di Amazon, prima di aggiungere che l’azienda discute le misure di sicurezza con le rappresentanze aziendali nei singoli siti, “come richiesto dal protocollo del 14 marzo”. E dice che “dal 22 marzo sul nostro sito abbiamo smesso temporaneamente di accettare ordini relativi a molti prodotti che non riteniamo prioritari per i nostri clienti”.
Ma quali sono allora quelli che l’azienda ritiene “prioritari”? I decreti del governo parlano di filiere essenziali e di “beni di prima necessità”, come alimentari e farmaci. Non è quello che intende Amazon: “Abbiamo sospeso diverse offerte, ma rispondiamo a ciò che i nostri clienti ci chiedono”, spiega Cottini. “Se leggiamo l’elenco allegato al decreto si può vendere quasi tutto”. Anche abbigliamento? “No, quello no. Però ci sono i venditori indipendenti che usano la nostra piattaforma e consegnano autonomamente”. Sta di fatto che nei magazzini dei corrieri in questi giorni transitano merci d’ogni genere. Basta fare la prova: dai prodotti per giardinaggio ai reggiseni, si può ordinare di tutto.
“Quello che proponiamo alle aziende è di ridurre il volume del lavoro limitandosi alle merci davvero essenziali”, spiega Alessandro Zadra, del SiCobas di Milano. “Abbiamo a che fare con magazzini dove lavorano due o trecento persone: bisogna trovare meccanismi di cassa integrazione a rotazione, in modo da far entrare i lavoratori in gruppi più piccoli e tenere le distanze”. Il fatto è che ci sono grandi stock di arretrati, continua Zadra, “migliaia di colli che le aziende vogliono distribuire a tutti i costi. I beni essenziali sono una piccolissima parte. Ma per le aziende della logistica questa è un’occasione d’oro per fare profitti, e non vogliono mollare”. Luca Stanzione insiste: “I facchini e gli addetti alle consegne sono invisibili, ma stanno lavorando e rischiando per gli altri”.
Leggi anche