×

Fornisci il consenso ai cookie

Internazionale usa i cookie per mostrare alcuni contenuti esterni e proporti pubblicità in linea con le tue preferenze. Se vuoi saperne di più o negare il consenso, consulta questa pagina.

Il tempismo perfetto della serie tv Lovecraft country

Lovecraft country. (Eli Joshua Ade, Hbo/Everett/Contrasto)

Molte cose sarebbero potute andare storte per la serie tv Lovecraft country. La terra dei demoni. Ma il tempismo della sua uscita non è stato una di queste. È un buon momento per ricevere attenzioni per una serie che parla di mostri spaventosi e che svecchia il genere horror facendo dei personaggi neri gli eroi e mettendo al centro della vicenda la storia razzista dell’America.

Il canale Hbo, dove ha debuttato ad agosto, aveva già offerto qualcosa di simile l’anno scorso con Watchmen. Ma la nuova serie, basata su un romanzo di Matt Ruff e scritta per la televisione da Misha Green (creatrice di Underground), è diversa per almeno due aspetti fondamentali. In Watchmen la questione razziale era uno dei molti temi, in Lovecraft country questa permea ogni scena e relazione.

Ancora più importante è il suo atteggiamento nei confronti dei generi di intrattenimento popolare (la narrativa pulp, il fumetto, i film da botteghino) dai quali trae ispirazione. La serie evita le pretese intellettuali che ad alcuni hanno reso un tantino soporifero l’adattamento di Watchmen. Lovecraft inserisce pienamente una storia tossica di vita vera nella sua narrazione fantastica, e ci ricorda quanto poco siano cambiate alcune cose nei sei decenni che ci separano dalla sua ambientazione. Il suo obiettivo sembra essere quello di spaventarci per farci divertire, cosa in cui riesce per circa metà del tempo.

I protagonisti neri si imbattono in sanguinari poliziotti bianchi, in una società segreta e in agghiaccianti mostri-lumaca

Con questo non si vuole sminuire il lavoro straordinariamente fluido che Green ha fatto nel servirsi delle metafore culturali (ha scritto tutti e dieci gli episodi, i primi tre come unica autrice). Lovecraft è un racconto di avventura: Atticus Freeman (Jonathan Majors), un tempo bambino timido ed erudito e oggi ruvido veterano della guerra di Corea, si mette in viaggio nell’America segregazionista degli anni cinquanta alla ricerca di suo padre scomparso, viene a conoscenza della sua madre defunta e probabilmente esorcizza alcuni dei suoi demoni.

È accompagnato da vari amici e familiari di Chicago, tra cui l’audace e politicamente attiva Leti (Jurnee Smollet) e suo zio George (Courtney B. Vance), editore di una guida per viaggiatori afroamericani e patito di letteratura pulp. Il loro viaggio iniziale li porta nel Massachusetts orientale, il Lovecraft country del titolo, e in una cittadina di nome Ardham, che differisce solo per una lettera dal luogo immaginario in cui sono ambientati alcuni dei terrificanti racconti di H.P. Lovecraft, ai quali è ispirato il romanzo di Ruff. I protagonisti si imbattono in sanguinari poliziotti bianchi, in una società segreta e in agghiaccianti mostri-lumaca vampireschi che in modo teneramente remissivo si infilano sotto terra quando hanno paura. In questo contesto da spettacolo pomeridiano del sabato, Green riesce a trovare, con coerenza e senza calcare la mano, il modo di connettere gli orrori affrontati dai personaggi con gli orrori quotidiani della vita delle persone nere. È un’operazione già fatta in passato, risalente almeno all’originale La notte dei morti viventi, ma forse non così accuratamente e con la stessa inventiva.

A volte le connessioni sono esplicite, come nell’idea dei neri poveri usati come cavie per esperimenti scientifici. Ma altre sono impresse nel tessuto della storia, come quando le allucinazioni soprannaturali che gli antagonisti bianchi procurano ai personaggi neri diventano un modo per farli impazzire, facendoli dubitare che gli attacchi contro di loro siano reali, o facendo loro credere che siano autoinflitti.


Un classico espediente dei film horror, l’incantesimo che trasforma l’aspetto di un personaggio, assume una risonanza diversa quando un personaggio nero viene fatto diventare bianco e improvvisamente è trattato, sia dai bianchi sia dai neri, come un essere umano. In un episodio tutto costruito sul tentativo di Leti di eliminare la segregazione razziale in un quartiere nord di Chicago, alla reazione violenta degli abitanti bianchi fanno da contrappunto le violente reazioni dei fantasmi che infestano la casa che ha comprato, finendo per intrecciarvisi. In tutta la narrazione gli abusi commessi da comuni persone bianche (tecnicamente non mostri) assumono ancor più cattiveria; gli occultisti, con la loro ossessione per la vita ultraterrena, hanno almeno una motivazione comprensibile.

Gran parte di questo materiale funziona sia come allegoria sia come azione e, soprattutto nei primi episodi diretti da Yann Demange (White boy Rick) e Daniel Sackheim, Lovecraft country ottiene la giusta miscela. I personaggi e la storia sono coinvolgenti, e la realizzazione dà una sensazione surreale ma vivida che ricorda la qualità ipnotica di H.P. Lovecraft ma ne evita gli eccessi coloriti (il razzismo e la misoginia che segnano le opere di Lovecraft sono brevemente citati).

Ed è divertente come l’amore per il pulp più volgare sia incastonato nella storia: la conoscenza che Atticus, George e gli altri hanno delle opere di Lovecraft, Dumas ed Edgar Rice Burroughs concede loro un vantaggio tattico nelle battaglie contro i mostri. L’energia e la libertà del pulp servono a noi per entrare nella storia e ai personaggi neri come strumento per creare per se stessi una mitologia alternativa e più elevata.

La serie però non mantiene lo slancio iniziale. Il terzo e il quarto episodio non hanno gli stessi piaceri allusivi, e i particolari stilistici slittano verso una modalità azione-avventura spielberghiana con la quale nessuna delle persone coinvolte sembra avere particolare affinità. Anche la narrazione comincia a divagare, le domande si accumulano.

Gli attori compensano in una certa misura la sbandata, soprattutto Vance nei panni del pacifico George e la straordinaria Wunmi Mosaku nel ruolo di Ruby, la pragmatica sorella di Leti, che aspira a un posto da commessa nella catena di grandi magazzini Marshall Field (è la sua seconda scelta dopo la carriera da cantante e Mosaku, nigeriana di nascita e cresciuta in Gran Bretagna, è potente e credibile quando si cimenta in I want a tall skinny papa e Is you is or is you ain’t my baby). Anche Smollett è eccellente, e la sua Leti aggiunge qualche necessario tocco di umorismo, mentre Majors con il suo Atticus è carismatico ma un po’ oscuro, forse perché molto del personaggio resta nascosto.

Nonostante gli episodi durino un’ora ciascuno, Lovecraft country è un buon candidato per il binge watching. La sua vivacità e varietà vi aiuteranno ad andare oltre i momenti noiosi, e riuscirete a tenere a mente la caleidoscopica storia.

(Traduzione di Francesco De Lellis)

Questo articolo è uscito sul quotidiano statunitense The New York Times.

pubblicità