I vicini della Libia fanno ancora i conti con la morte di Gheddafi
Nel 2017 Precious fu avvicinata da una donna che voleva offrirle una grande opportunità: lasciare la sua casa nella Nigeria meridionale per andare in Italia, dove avrebbe potuto lavorare come sarta e mandare soldi alla famiglia. Precious aveva letto sui social network di persone che sembravano fare la bella vita in Europa e sapeva quanto i soldi che mandavano a casa avevano cambiato la vita delle loro famiglie. La donna le garantiva che il viaggio sarebbe stato facile e che avrebbe potuto fare molto per aiutare la sua famiglia.
“Mi ha ingannata”, racconta Precious, seduta su un divano a Benin City, la quarta città più grande della Nigeria e un importante centro del traffico di esseri umani e delle migrazioni verso l’Europa. “E io ho sofferto”.
Il viaggio di Precious, 22 anni, non è stato per niente facile. È passata da un intermediario all’altro in Nigeria, poi in Niger, dove ha viaggiato nel deserto per tre giorni sul retro di un pickup Toyota Hilux con altre 25 persone. È stata picchiata e ha sofferto la fame. Altre persone che viaggiavano con lei sono morte. Le sofferenze vere però sono cominciate all’arrivo in Libia. Per più di un anno Precious ha dovuto prostituirsi insieme a decine di altre donne dell’Africa subsahariana. Non poteva uscire, subiva violenze e non le davano da mangiare regolarmente. “La Libia è un posto orribile, senza legge”, afferma la donna, che è riuscita a scappare nel 2019 ed è tornata a casa su un volo organizzato dalle Nazioni Unite. “Dicono che da quando è morto lui è cambiato tutto”.
“Lui” è Muammar Gheddafi, il dittatore libico rovesciato nell’agosto del 2011 e ucciso dai ribelli due mesi dopo. Storie di violenze e abusi sono comuni tra le centinaia di migliaia di persone che sono passate per la Libia negli ultimi dieci anni, dopo che il paese nordafricano ricco di petrolio è sprofondato nel caos e nella guerra. Anche prima del 2011 la Libia era un punto di passaggio per i migranti diretti a nord. Ma dopo la rivoluzione il loro numero è aumentato e il paese è diventato il principale corridoio per gli africani che cercano di raggiungere l’Europa, dove nel frattempo è cresciuta la xenofobia e si è affermata la destra populista. Oggi più di 700mila migranti sono bloccati in Libia, secondo le stime dell’International rescue committee, per il quale il viaggio compiuto da Precious è “la rotta migratoria più pericolosa del mondo”.
Il ventre molle
A dieci anni di distanza, gli effetti collaterali della caduta di Gheddafi – un dittatore che per 42 anni guidò un regime corrotto, che violava sistematicamente i diritti umani – si fanno ancora sentire ben oltre i confini della Libia: nelle morti dei migranti a bordo di piccole imbarcazioni nel Mediterraneo; nei campi di schiavitù e nei centri di prostituzione sulla terraferma; nell’instabilità diffusa nel Sahel, dove sono morte migliaia di persone e altre milioni sono state costrette ad abbandonare le proprie case, e dove la Francia è rimasta impantanata in quella che alcuni considerano la sua guerra “permanente”.
“La Libia è diventata un ‘ventre molle’, un punto vulnerabile per tutti i paesi confinanti”, afferma Mathias Hounkpe, capo dell’ufficio Mali della Open society initiative for West Africa. “Mali, Niger, Ciad: tutti questi paesi stanno avendo problemi perché la Libia non è stabile”.
La scomparsa di Gheddafi ha avuto conseguenze devastanti in Libia. Il paese è stato travolto da violenze e caos fin dalle elezioni contestate del 2014, dopo le quali fazioni rivali hanno diviso il paese in feudi, mentre gruppi armati, bande criminali e trafficanti di esseri umani hanno approfittato in tutti i modi della debolezza dello stato. Nel marzo di quest’anno ha prestato giuramento un governo unitario, il frutto di un processo sostenuto dalle Nazioni Unite per porre fine a una guerra civile che aveva attirato sulla Libia militari delle potenze regionali e [mercenari](http://In Africa i mercenari sono sempre più richiesti) provenienti da paesi come Ciad, Russia, Siria e Sudan. La nuova amministrazione dovrebbe guidare il paese fino a dicembre, quando sono previste le elezioni.
I ministri degli esteri di paesi come Egitto, Tunisia, Sudan, Ciad e Niger si sono incontrati il 31 agosto per discutere della situazione libica e hanno chiesto ai mercenari e ai combattenti stranieri di lasciare il paese. “La Libia è la prima vittima di questi elementi irregolari”, ha detto il ministro degli esteri algerino Ramtane Lamamra. “Se il loro ritorno non avverrà in modo trasparente e organizzato, a pagarne le conseguenze potrebbero essere i paesi confinanti”.
Le insurrezioni in Burkina Faso, Niger e Mali erano pronte a esplodere. Avevano bisogno solo di una spinta, di un innesco
Il Sahel, la fascia semiarida a sud del Sahara che comprende alcuni dei paesi più poveri del mondo, è da tempo un’area molto instabile. La caduta di Gheddafi non ha causato direttamente l’attuale caos, ma ha accelerato dinamiche in atto da tempo, spiega Yvan Guichaoua, studioso di Sahel dell’università del Kent, nel Regno Unito: “Le insurrezioni in Burkina Faso, Niger e Mali erano pronte a esplodere. Avevano bisogno solo di una spinta, di un innesco. E la Libia ha svolto quella funzione”.
In Mali, paese che aveva già vissuto delle rivolte, nel 2012 sono stati dei combattenti – tuareg e jihadisti – che si erano fatti le ossa in Libia e che avevano le armi dell’arsenale di Gheddafi a occupare il nord del paese, indebolendo irrimediabilmente il governo di Bamako. La Francia è intervenuta nel 2013 e da allora non è più andata via. Il suo coinvolgimento militare è diventato un elemento di vulnerabilità per il presidente Emmanuel Macron, che punta alla rielezione nel 2022.
Da allora i jihadisti si sono insediati ancora più in profondità nella regione, trasformandola in uno dei più importanti fronti per Al Qaeda e per il gruppo Stato islamico. Gli estremisti islamici in Burkina Faso hanno preso ispirazione e hanno dato vita a una ribellione interna, mandando in frantumi la sicurezza del paese. I jihadisti hanno approfittato delle tensioni etniche già presenti nei due stati e hanno riempito i vuoti di potere lasciati da uno stato negligente.
I leader del Sahel hanno a loro volta usato il caos in Libia come scusa per giustificare la loro incapacità a garantire la sicurezza o per adottare “il pugno di ferro con i loro cittadini”, osserva Guichaoua, aggiungendo che spesso si sovrastima il ruolo della Libia.
La pensa allo stesso modo Corinne Dufka, responsabile di Human Rights Watch per l’Africa occidentale. Secondo lei il collegamento tra la Libia e l’insicurezza nel Sahel “è stato esagerato”. La “stragrande maggioranza” delle armi in circolazione in questo momento, afferma, “proviene da attacchi che i jihadisti hanno condotto contro le forze di sicurezza o che hanno semplicemente comprato”.
Eventi a cascata
Per molti anni i migranti hanno attraversato il Sahara per raggiungere l’Europa. Negli ultimi tempi passati al potere Gheddafi si era messo a fare da regolatore, agevolando e fermando questi flussi per ottenere in cambio concessioni dall’Unione europea e dall’Italia. Dopo la morte del dittatore, a riempire il vuoto sono stati i trafficanti e le milizie. In seguito alla rivoluzione “l’economia del contrabbando ha potuto espandere la sua capacità e portata logistica, operando con un’impunità mai vista prima”, si legge in un rapporto del 2018 dell’Iniziativa globale contro il crimine organizzato internazionale.
L’Unione europea ha così cercato di spostare i suoi confini in mezzo al deserto, in Niger, versando al paese 1,6 miliardi di euro di aiuti tra il 2016 e il 2020 per impedire ai migranti di attraversare il Sahara lungo le rotte battute da secoli. Così li ha spinti verso percorsi più ardui, in mezzo al deserto, lungo i quali sono morti a migliaia.
Nel vicino Ciad il leader autoritario Idriss Déby aveva affrontato per anni delle ribellioni, molte delle quali lanciate da gruppi che stanziavano sul territorio libico. Secondo alcuni esperti della regione, i ribelli ciadiani che hanno ucciso Déby lo scorso aprile avevano lavorato come mercenari per il comandante delle forze dell’est della Libia, Khalifa Haftar, sostenuto dalla Francia, e in questo frangente si erano rafforzati così tanto da poter lanciare un’offensiva contro la capitale ciadiana N’Djamena. Déby, che guidava il paese dal colpo di stato del 1990, era rimasto al potere anche grazie al sostegno politico e finanziario dell’Europa, che in lui vedeva il suo più importante baluardo contro i jihadisti del Sahel.
“Dal 2011 sono successe molte cose”, afferma Daniel Eizenga, ricercatore dell’Africa center for strategic studies del dipartimento della difesa statunitense. “Ma la caduta di Gheddafi è stato un momento determinante, che ha innescato una serie di crisi. Da lì in poi, è stata una cascata di eventi”.
Alleanze di comodo
Nel febbraio del 2011, mentre le rivolte arabe si diffondevano in tutto il Medio Oriente e il Nordafrica, i giovani libici organizzarono sui social network una “giornata della rabbia” contro Gheddafi. L’occidente, Francia in testa, intervenne alimentando la rivolta popolare. Fu una decisione controversa, a cui Joe Biden – a quei tempi vicepresidente – si era opposto. Ma a marzo gli aerei da combattimento della Nato solcavano i cieli della Libia. Ad agosto i ribelli conquistarono il compound del dittatore e il 20 ottobre le forze ribelli trovarono Gheddafi nei pressi di Sirte e lo uccisero in maniera sommaria.
La sua morte lasciò un vuoto e creò il caos. Nel 2016 il presidente statunitense Barack Obama affermò che il suo “errore peggiore” è stato “non pianificare quello che sarebbe successo dopo” in Libia. In un’intervista del 2016 Biden ha affermato: “Mi sono detto: ‘Ok, lo togliamo di mezzo. Ma poi il paese non si disintegrerà? Cosa succederà dopo? Non diventerà un terreno di coltura per l’estremismo?’”.
I gruppi più radicali hanno usato l’arsenale di Gheddafi per ampliare le loro attività nel Sahel. Si tratta “ancora oggi della più grande riserva di munizioni non sorvegliata del mondo”, afferma David Lochhead, ricercatore dello Small arms survey e uno dei primi peacekeeper schierati dalle Nazioni Unite nel nord del Mali nel 2013.
L’occidente non era preparato al dopo Gheddafi. E per questo l’Unione europea è stata costretta a spendere miliardi di euro per la sicurezza, lo sviluppo e il controllo delle frontiere nell’Africa occidentale e centrale. È la Francia a spendere più di 900 milioni di euro nel 2020 per l’operazione Barkhane, la sua missione militare nel Sahel, composta da cinquemila soldati presenti nella regione dal 2013.
Ma nessuno ha pagato un prezzo tanto alto quanto il Sahel, dove migliaia di persone sono morte e milioni sono state costrette a scappare dalle loro case nella spirale di violenze innescata dalla caduta del Mali settentrionale dopo il ritorno di migliaia di mercenari che avevano lavorato per Gheddafi. “Nel 2011 la preoccupazione principale era cosa fare degli almeno quattordicimila combattenti ben addestrati che tornavano nei loro paesi senza nulla da fare”, afferma Bisa Williams, ambasciatrice statunitense in Niger tra il 2011 e il 2013. “Uno sciame di persone è calato sull’Africa subsahariana, ma i governi non erano pronti”.
Il Mali del nord era già stato il teatro delle ribellioni dei tuareg. Tuttavia “quella volta l’insurrezione fu più potente perché si erano uniti opportunisticamente i gruppi jihadisti. E forse questo ha spinto alcuni a pensare che un’insurrezione interna potesse avvantaggiarsi di questi gruppi che avevano più denaro e armi”, spiega Williams. “Per alcuni era difficile resistere all’attrazione esercitata dalla disponibilità di risorse, manodopera e addestramento. Così, poco alla volta, molti gruppi locali si sono affiliati all’Is e ad Al Qaeda”.
Le potenze occidentali consideravano Déby il loro alleato più importante nella lotta contro il gruppo terroristico Boko haram
La mattina del 20 aprile 2021, mentre nelle strade di N’Djamena si festeggiava la vittoria schiacciante del presidente nella sesta elezione di fila, Idriss Déby era già morto, a centinaia di chilometri dalla capitale. L’uomo forte del Ciad era stato ucciso mentre faceva visita alle truppe schierate al fronte, nel corso di uno scontro a fuoco con un convoglio ribelle diretto nella capitale ciadiana.
Le potenze occidentali consideravano Déby il loro alleato più importante nella lotta contro il gruppo terroristico Boko haram, attivo nell’area di confine con la Nigeria nordorientale. Déby era diventato ancora più essenziale dopo il lancio di un’operazione antijihadista nel Sahel guidata dalla Francia. La stabilità del Ciad era così importante per Parigi che nel 2019 ha mandato degli aerei da combattimento per colpire un convoglio di ribelli che minacciava N’Djamena. La Francia, però, non è intervenuta questa primavera contro i ribelli del Fronte per il cambiamento e la concordia in Ciad (Fact), responsabili della morte di Déby.
“È impossibile pensare alla trasformazione delle ribellioni nel Ciad settentrionale senza tenere conto della guerra civile libica”, afferma Eizenga. “L’instabilità e l’incertezza in Libia – conseguenze dirette della morte di Gheddafi – hanno aperto nuove opportunità per aspiranti mercenari e altre fazioni ribelli. La Libia è sempre stata un elemento cruciale per la stabilità del Ciad, e nel 2011 Déby aveva avvertito: ‘Se va via Gheddafi, avremo molti problemi’. Credo che fosse perfettamente consapevole del fatto che questo valeva anche per lui”.
Eterno ritorno
A Benin City, Kenneth Michael, che insieme a Precious fa parte di un gruppo di sostegno per i migranti tornati a casa, mostra la foto di un uomo magrissimo. È l’ombra di se stesso. “Sono tornato nel 2017 ed ero quasi morto”, racconta.
Nei due anni passati in Libia ha cercato di attraversare il Mediterraneo tre volte. Ogni volta il suo gommone è stato catturato dalla guardia costiera libica, che lo ha poi rinchiuso in carceri che a suo dire erano poco più che campi di lavoro forzato, dove le guardie lo costringevano a chiamare i suoi familiari per farsi mandare soldi o lo affittavano agli agricoltori perché lavorasse gratis nei loro campi. Secondo l’Irc, negli ultimi otto mesi 23mila persone sono state intercettate in mare e riportate in Libia.
Michael è una delle decine di migliaia di vittime consegnate a trafficanti e milizie dalla guardia costiera libica che, nonostante le accuse di gravi violazioni dei diritti umani, è ancora un partner fondamentale dell’Unione europea nelle operazioni di contrasto all’immigrazione irregolare. Oggi, secondo l’Unhcr, dalla Libia parte il 90 per cento delle persone che attraversa il Mediterraneo per arrivare in Europa. Secondo un rapporto dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni, solo quest’anno 1.312 persone sono morte nella traversata, più del doppio rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso e il 20 per cento in più rispetto allo stesso periodo del 2019.
“Oggi non c’è più legge, perciò in Libia alcune persone fanno come gli pare”, afferma l’uomo di 32 anni. “Dato che non c’è un governo e che tanti africani cercano di attraversare il mare, i trafficanti hanno visto l’opportunità di guadagnare molti soldi, senza preoccuparsi di come ci trattavano”.
Osserva con lo sguardo perso la foto sul cellulare, e aggiunge: “Non riesco a descrivere quello che ho passato in Libia”.
(Traduzione di Giusy Muzzopappa)
Questo articolo è uscito sul Financial Times.