La Groenlandia difende le sue terre dallo sfruttamento minerario
Raramente un’elezione groenlandese ha attirato così tanta attenzione. Il 6 aprile gli abitanti dell’isola – territorio della Danimarca che gode di ampia autonomia – hanno inviato dalle urne un chiaro messaggio contro un progetto di estrazione dell’uranio e delle terre rare (minerali ed elementi chimici usati in settori strategici) nel sud del paese. Tutta la campagna elettorale era stata incentrata sull’avvio dello sfruttamento di una miniera nella zona di Kuannersuit (Kvanefjeld in danese) gestita dall’azienda australiana Greenland minerals, controllata all’11 per cento da un conglomerato statale cinese, Shenghe resources.
Il principale partito di sinistra, Inuit ataqatigiit (Ia, Comunità del popolo), che aveva guidato l’opposizione al progetto, è arrivato in testa con il 37 per cento dei voti, ottenendo 12 dei 31 seggi dell’assemblea legislativa locale, l’Inatsisartut. Ha sconfitto il partito socialdemocratico Siumut del primo ministro uscente Kim Nielsen, che ha ottenuto il 30 per cento dei voti e otto seggi, e che era favorevole al progetto. Grazie all’aiuto di un altro partito, Naleraq (che ha conquistato quattro seggi), nato da una costola di Siumut contraria alle estrazioni, il leader di Inuit ataqatigiit, Múte Egede, 34 anni, potrebbe effettivamente diventare il nuovo capo del governo locale e mettere fine a questo enorme progetto minerario.
Tra le risorse a disposizione di questo territorio di due milioni di chilometri quadrati, ce ne sono alcune indispensabili alle tecnologie moderne, e in particolare ad alcune tecnologie “verdi”. Si tratta dei minerali contenuti nelle cosiddette terre rare, elementi chimici dalle forti proprietà magnetiche, ottiche e conduttrici, usati ormai nei telefoni, in alcuni impianti eolici – in particolare offshore –, nelle marmitte catalitiche e nei semiconduttori. Ma il loro sfruttamento è molto inquinante, perché produce una forte radioattività e, spesso, i giacimenti si trovano vicini a quelli d’uranio, come nel caso della Groenlandia. Gli Stati Uniti hanno dovuto rinunciare allo sfruttamento di parecchie miniere del genere per motivi ambientali. Ed è per questo che oggi la Cina dispone di un certo controllo su questo mercato (in particolare grazie allo sfruttamento delle miniere nordcoreane).
Ma al di là degli equilibri politici locali, la scelta dei groenlandesi risponde alle priorità di sviluppo e di futuro politico del territorio, oltre a riflettere questioni urgenti e più globali sulla gestione dell’ambiente.
Dal 2008 il governo di Nuuk, la capitale della Groenlandia, dispone del controllo delle sue risorse naturali. La Danimarca mantiene la sua autorità solo su difesa, affari esteri e moneta. Ma la più grande isola del mondo è ricca di risorse e solletica molti interessi. Tanto più ora che il riscaldamento climatico sta provocando il graduale scioglimento dell’immenso ghiacciaio che occupa la maggior parte della sua superficie e sta portando alla luce possibili giacimenti minerari.
Dunque, l’identificazione di giacimenti nel sud della Groenlandia, un territorio poco abitato, è stata considerata una manna. Dal 2007 Greenland minerals ha cominciato degli studi in vista dello sfruttamento minerario a Kuannersuit.
Dietro all’evoluzione ambientalista c’è anche un nuovo approccio alla questione dell’indipendenza
All’epoca la politica groenlandese era concentrata su come ottenere l’indipendenza dalla Danimarca. Ancora oggi, per tagliare ogni legame, l’isola dovrebbe prima essere in grado di rinunciare ai seicento milioni di dollari che Copenaghen invia ogni anno e che rappresentano ancora il 40 per cento del bilancio locale, dove il pil pro capite, a parità di potere d’acquisto, è di 37.600 dollari: una situazione paragonabile a quella del Portogallo. Dietro a questa cifra, tuttavia, si nascondono grandi difficoltà sociali, un alto numero di suicidi, una diffusa violenza e una mancanza di alloggi accentuata dall’aumento dell’urbanizzazione. Difficile, in queste condizioni, fare subito a meno degli aiuti danesi.
I due grandi partiti, Inuit ataqatigiit e Siumut, avevano quindi scommesso, alla fine degli anni duemila, sullo sfruttamento delle risorse naturali, che era stato accolto a braccia aperte. Quando il Siumut è tornato al potere nel 2013 (sconfiggendo l’Ia che governava dal 2009 e aveva inaugurato numerosi progetti estrattivi), il partito ha permesso lo sfruttamento dell’uranio, rendendo possibile l’apertura di una miniera nel sito di Kuannersuit. Ma all’epoca i dibattiti si concentravano sull’influenza cinese e sulla necessità d’importare manodopera, piuttosto che sulle questioni ambientali.
Le preoccupazioni sono emerse dal 2015. Come spiega Mikaa Mered, docente di questioni politiche del Polo nord e sud a Parigi, la questione ambientale è ormai al centro dell’interesse politico di chi ha tra i 18 e i 35 anni, come dimostra il nuovo segretario di Ia, Múte Egede. Si tratta spesso di giovani che hanno studiato in Danimarca dove hanno acquisito una sensibilità su questi temi. Inoltre, nel 2013 Marianne Paviasen, un’abitante di Narsaq, la città più vicina al sito di Kuannersuit, ha creato un’organizzazione che si batte contro il progetto estrattivo, previsto, per di più, nell’unica zona agricola della Groenlandia. I due movimenti hanno trovato un punto di contatto: Marianne Paviasen è entrata in Inuit ataqatigiit che a sua volta ha insistito sulle questioni ambientali.
Dietro a questa evoluzione si cela anche un nuovo approccio alle questioni dell’indipendenza. Ia rimane ufficialmente un partito indipendentista e preferisce guadagnare tempo per costruire un modello economico alternativo che renda possibile l’indipendenza. Il Siumut invece vuole dare la priorità ai progetti minerari per avere al più presto i mezzi necessari a separarsi dalla Danimarca.
Quale nuovo modello economico?
Sul piano puramente finanziario, il progetto di Greenland minerals poteva essere seducente. Tenuto conto dell’importanza delle terre rare, l’insieme delle risorse sfruttate per i 37 anni di vita previsti della miniera aveva già trovato dei compratori. Senza peraltro dover andare troppo lontano: l’acquirente era una joint venture tra Shenge resources e l’azienda nucleare di stato cinese Cnnc. Tra tasse e royalties, la miniera avrebbe permesso di mettere a bilancio tra i cento e i 130 milioni di dollari all’anno, secondo Mikaa Mered.
Cifre che avevano spinto il governo di Kim Kielsen ad accordare una licenza a un’altra azienda australiana per un nuovo progetto di miniere di terre rare e uranio, chiamato Tanbreez, in un fiordo non lontano da Kuannersuit. E a febbraio, in piena campagna elettorale, sono state accordate nuove licenze di sfruttamento ad altre imprese nel sud della Groenlandia. Il messaggio era chiaro: tutto fa brodo, pur di generare introiti, anche a un elevato costo ambientale. E il progetto di Kuannersuit non era che un primo passo verso uno sfruttamento più sistematico e in linea, peraltro, con i bisogni dell’industria mondiale in generale, e cinese in particolare.
Lanciandosi nello sfruttamento minerario, la Groenlandia aveva da perdere il suo ambiente naturale e molto di più
Ma per gli abitanti della regione e per molti groenlandesi, il gioco non vale più la candela. Inoltre, la valutazione di impatto ambientale presentata da Greenland minerals ha sollevato un vero e proprio scandalo: l’azienda non si è curata di tradurre in groenlandese i suoi documenti, nonostante fosse obbligata per legge, e si è mostrata evasiva sui suoi impegni economici e fiscali. Il rischio di vedere il sud della Groenlandia devastato dalle estrazioni era concreto. La popolazione si è sentita umiliata e offesa, per di più, sottolinea Mikaa Mered, in un momento in cui la fiducia nella classe politica e amministrativa è ai minimi termini. E come potrebbero avere un peso 56mila abitanti di fronte a giganti economici cinesi e australiani? Quando ci si sottopone a un simile rapporto di dipendenza la questione diventa delicata.
Tanto più che i groenlandesi hanno scoperto di recente che l’uomo che aveva consigliato a Donald Trump di proporre alla Danimarca di acquistare in blocco la Groenlandia nel 2018 è Greg Barnes, presidente del Tanbreez, l’altro progetto australiano.
In parole povere, lanciandosi nello sfruttamento minerario la Groenlandia aveva da perdere il suo ambiente naturale e molto di più. A queste condizioni occorreva dunque, ed è quel che ha proposto Inuit ataqatigiit, ridefinire un modello economico più equilibrato prima di cercare la secessione dalla Danimarca, il tutto difendendo il più possibile l’identità culturale locale.
Una rottura generazionale
Le elezioni del 6 aprile hanno mostrato che il rifiuto del modello estrattivo è ormai generalizzato in tutto il territorio, non solo nel sud. “Ormai è maggioritario; solo i groenlandesi più anziani sono ancora legati a un’idea d’indipendenza conquistata attraverso lo sviluppo minerario, sostenuta dal Siumut”, riassume Mikaa Mered, che insiste sulla “rottura generazionale” messa in luce dal voto.
Resta da definire una soluzione che tenga conto degli effetti di questa mobilitazione su Kuannersuit. Secondo Mikaa Mered, il partito di maggioranza dovrebbe sospendere il controverso progetto della miniera d’uranio e di terre rare, e portare avanti i progetti minerari meno nocivi, come quelli dello zinco e del rame. E questo porta alla luce il fatto che non c’è quindi una rinuncia totale al modello estrattivista. “Inuit ataqatigiit non è contro le miniere, ma si oppone a quelle più inquinanti”, spiega lo studioso.
Tuttavia, continua Merek, questo modello non sembra più essere l’unica strada di sviluppo del territorio. L’isola si è già impegnata in attività ricettive di alto livello più rispettose dell’ambiente rispetto al turismo di massa. E altre piste di sviluppo industriale potrebbero essere l’acquacoltura alla norvegese, che si sta diffondendo anche in Islanda e potrebbe interessare le comunità di pesca groenlandesi; lo sfruttamento della sabbia che si libera a causa dello scioglimento dei ghiacci, mentre le riserve asiatiche si esauriscono a causa della domanda cinese di cemento; il settore dell’idrogeno rinnovabile; e l’installazione di centri dati, che fa gola ai giganti del digitale per via dell’abbondanza di elettricità, del suo costo contenuto e della necessità di sistemi di raffreddamento naturali per queste macchine.
Serviranno anni prima che ipotesi del genere diventino realtà. Nel frattempo, serve una migliore formazione tecnica della popolazione, e anche se da decenni l’istruzione primaria e secondaria sono al centro delle politiche dell’isola, l’università di Nuuk ha poche risorse e tanti giovani preferiscono formarsi all’estero o in Danimarca, ed è difficile richiamarli in Groenlandia se non ci sono posti di lavoro che a loro volta non possono svilupparsi senza una manodopera locale qualificata.
D’altra parte, non va dimenticato che lo sviluppo di molti di questi settori non è affatto sostenibile dal punto di vista ambientale, anche se i loro effetti possono essere meno visibili e diretti di quelli della miniera di Kuannersuit. Il turismo di alto livello, l’acquacoltura o l’estrazione di sabbia, zinco o rame, per esempio, hanno un impatto in termini di trasporto, distruzione della biodiversità e uso di prodotti tossici. Senza contare le ricadute sul resto del pianeta: il settore del cemento in Cina, che ne uscirebbe così alimentato, non è certo meno dannoso dello sfruttamento delle terre rare. Il risultato elettorale del 6 aprile segna, sicuramente, una svolta nella politica di sviluppo della Groenlandia. Ma la sua nascente coscienza ambientalista si limiterà agli aspetti più dannosi e visibili? E se così non fosse, come potrà svilupparsi questa immensa regione?
In fin dei conti i 56mila groenlandesi sono soggetti, come tutti noi, a problemi che conducono spesso, data l’attuale situazione, a un temporaneo vicolo cieco. Dopo tutto, i progetti della Greenland Minerals e della Tanbreez possono presentarsi come “verdi” perché alimentano le tecnologie della “transizione ecologica”. Il voto dei groenlandesi apre nuovi problemi, anche ambientali. Ogni nuova soluzione crea nuovi problemi. Tanto che la situazione di questa gigantesca isola ci spinge a ripensare la logica stessa dello sviluppo e il suo significato.
(Traduzione di Federico Ferrone)
Questo articolo è uscito sul sito francese Mediapart.