Cronache da un ospedale di New York travolto dalla pandemia
La notte è stata particolarmente dura. I pazienti, uno dopo l’altro, sono stati intubati e collegati ai respiratori. A un certo punto ci sono stati contemporaneamente tre “codici”, cioè interventi d’emergenza per casi in cui il paziente è in punto di morte.
Joshua Rosenberg, 45 anni, medico del reparto di terapia intensiva del Brooklyn hospital center, a New York, arriva alle prima ore della mattina. Poco dopo sta già correndo per le scale, tra il suo reparto al sesto piano e una nuova unità appena creata al terzo piano. Lì incrocia uno dei suoi studenti. “Non dovresti essere a casa?”, gli chiede con aria stupita. Nelle ultime settimane le rotazioni in corsia degli studenti sono state sospese per evitare di esporli al virus. “Mia madre è ricoverata”, risponde lo studente. Rosenberg impreca e chiede al ragazzo in quale letto si trovi la madre. “Ok, sto andando lì”, gli dice. Poi si assicura che lo studente abbia il suo numero di telefono.
Poco prima gli specializzandi di terapia intensiva avevano fatto rapporto a Rosenberg e ad altri medici, parlando per abbreviazioni alla velocità di banditori d’asta. I pazienti da visitare erano tanti. “Ricoverato per insufficienza respiratoria acuta ipossiemica, probabilmente causata da covid-19”. “Ricoverato per insufficienza respiratoria acuta ipossiemica sicuramente causata da covid-19”. “Ricoverato per insufficienza respiratoria acuta ipossiemica, molto probabilmente covid-19”.
Quasi tutti i pazienti che si trovano nella nuova unità di terapia intensiva e in quella principale sopravvivono grazie ai respiratori artificiali. Alcuni hanno più di ottant’anni, altri non arrivano ai quaranta. Alcuni sono in gravi condizioni perché soffrivano di diabete o d’asma, ma altri non presentavano nessun fattore di rischio apparente. Molti malati vengono dalle case di riposo. Altri sono persone che vivono per strada. Ci sono donne incinte.
Crollo simultaneo
La scorsa settimana è stata quella in cui la crisi causata dal covid-19 ha travolto l’ospedale di Brooklyn e molti altre strutture di New York. Finora in città sono morte almeno 2.500 persone. Il governatore ha comunicato che presto gli ospedali dello stato resteranno senza attrezzature e forniture essenziali. Il sindaco ha chiesto l’assunzione di nuovi medici e infermieri. Le direzioni sanitarie hanno ammesso che la situazione è destinata a peggiorare.
Nell’ospedale di Brooklyn, una struttura di medie dimensioni, i decessi causati dal virus sono aumentati di cinque volte in pochi giorni. Il numero di pazienti positivi al covid-19 è passato da 15 a 105. Altri 48 pazienti sono in attesa del risultato del tampone. Secondo il direttore sanitario, un terzo dei medici è in malattia. L’ospedale ha esaurito temporaneamente le tute protettive, i principali sedativi che si usano per i pazienti intubati e alcuni farmaci essenziali per l’ipertensione. La sensazione di emergenza e tragedia è stata alimentata da un video girato fuori dall’ospedale e pubblicato online, in cui un muletto solleva un cadavere per caricarlo su un rimorchio refrigerato.
“In una settimana siamo passati dal sovraffollamento fuori dall’ospedale al sovraffollamento dentro l’ospedale”
La settimana scorsa Rosenberg è stato costretto a restare a casa per la febbre e la spossatezza. Era convinto di aver contratto il covid-19 (dopo che le sue condizioni sono migliorate ha fatto il tampone ed è risultato negativo). Prima che si assentasse, la terapia intensiva aveva 18 posti letto. In quel momento l’emergenza stava cominciando a colpire l’ospedale, e le autorità sanitarie avevano deciso di montare una tenda fuori dalla struttura per visitare il maggior numero possibile di persone. Molti avevano sintomi lievi, quindi venivano rassicurati e invitati a tornare a casa. Ma mentre Rosenberg era in malattia, il numero di malati gravi è aumentato vertiginosamente e si è dovuto ampliare più volte la terapia intensiva, fino a raddoppiare i posti letto. “Nell’arco di una settimana siamo passati dal sovraffollamento fuori dall’ospedale al sovraffollamento dentro l’ospedale”, spiega Lenny Singletary, vicedirettore per le relazioni esterne.
Ancora prima del resoconto mattutino in terapia intensiva, Rosenberg e altri operatori hanno dovuto affrontare un’emergenza in un’unità di day hospital. Un uomo di mezza età si era presentato in ospedale per sottoporsi a una seduta di dialisi, ma aveva cominciato a sudare. Gli infermieri si stavano preparando per aiutarlo a respirare usando una maschera ad aria pressurizzata, conosciuta come Bipap. Ma Rosenberg ha pensato che fosse una pessima idea: in quel momento non era possibile stabilire se le condizioni del paziente fossero dovute al nuovo coronavirus, e c’era il rischio che il macchinario rilasciasse particelle virali nell’aria, alimentando il contagio in ospedale. Il paziente è stato trasportato al pronto soccorso. “È molto probabile che sarà intubato e avrà bisogno di un respiratore”, ha spiegato Rosenberg ai colleghi.
Nella nuova terapia intensiva, ricavata da un’unità di chemioterapia, le tute di plastica blu sono appese ai cardini delle porte. Prima di essere riutilizzate devono essere lavate e asciugate. Alcuni cesti di plastica rosa pieni di materiale medico sono poggiati su un letto, inclinato come uno scivolo. La squadra di rianimatori di Rosenberg indossa per tutto il giorno la stessa attrezzatura – maschere, occhiali protettivi e coperture per capelli e piedi, spesso spaiate e comunque inadeguate – e non si cambiano mai tra una visita e l’altra.
Codice blu, 6b
Con un numero così alto di operatori in congedo per malattia e un flusso continuo di nuovi pazienti, è indispensabile reclutare medici, infermieri, farmacisti e tecnici abituati a lavorare in terapia intensiva. Nel reparto di Rosenberg sono arrivati una podologa con due specializzandi, un assistente di neurochirurgia, alcuni specializzandi di chirurgia e un’infermiera anestesista. “Tutta gente che sa maneggiare bisturi e grossi aghi”, scherza Rosenberg.
Alcuni infermieri assistono contemporaneamente cinque pazienti in condizioni critiche. Sono numeri “assurdi”, spiega Rosenberg. Di solito gli infermieri esperti di terapia intensiva gestiscono al massimo due casi.
Alle dieci del mattino Rosenberg e il dottor James Gasperino, primario di medicina e terapia intensiva, parlano al telefono con i loro superiori di come affrontare le difficoltà. La direttrice sanitaria, Vasantha Kondamudi, riassume la situazione: il personale scarseggia, gli specializzanti continuano ad ammalarsi e il numero di pazienti con covid-19 probabile o accertato sta aumentando in modo esponenziale in tutti i reparti. Ma il momento peggiore della crisi deve ancora arrivare.
Dopo la telefonata, Gasperino si ferma in corsia a parlare con il primario di pneumologia. L’ospedale ha 98 respiratori, in gran parte arrivati negli ultimi giorni, compresi alcuni apparecchi portatili provenienti dalle scorte nazionali. Gli operatori stanno imparando a usare ogni respiratore su due pazienti contemporaneamente, una manovra difficile e rischiosa. “Lo facciamo perché l’alternativa è lasciarli morire”, ammette Gasperino. La conversazione è interrotta da un allarme: “Codice blu, 6b. Codice blu, 6b”.
Gli operatori stanno imparando a usare ogni respiratore su due pazienti contemporaneamente
La squadra di rianimatori è tenuta a rispondere alle emergenze in qualsiasi reparto dell’ospedale. Gasperino dovrebbe tornare a casa dopo il turno di notte, ma si unisce a un gruppo di più di dieci persone nella stanza del paziente. “covid?”, domanda qualcuno. “No, non è il covid”, risponde un altro. I giovani specializzandi sono ai lati del letto e si alternano nella rianimazione cardiopolmonare. Gli infermieri corrono fuori dalla stanza e tornano con l’attrezzatura necessaria. Gasperino inserisce un catetere in una grossa vena del paziente. Le pulsazioni dell’uomo riprendono.
Su quasi tutte le porte del reparto c’è un adesivo fluorescente che ricorda al personale di indossare i dispositivi di protezione. Su molti adesivi è scritta la parola covid. Gli operatori hanno separato i respiratori dai comandi che servono a farli funzionare, in modo da poter monitorare i pazienti a distanza, entrando nella stanza del paziente solo in caso di necessità. In questo modo si spera di ridurre l’esposizione al virus. Gli infermieri stanno facendo lo stesso con le pompe che somministrano i farmaci per endovena, aggiungendo tubi che serpeggiano sui pavimenti.
Gli operatori si precipitano dentro e fuori dalle stanze, preparandosi per gli interventi. “Attenzione a non inciampare”, avverte Rosenberg rivolgendosi a un collega. Pochi istanti dopo è costretto a ripetersi. “Attento a non inciampare”.
Procedere a tentoni
Nel pomeriggio, quando un paziente diventa improvvisamente instabile, Rosenberg consegna agli altri operatori alcune maschere con visiera prima che entrino nella stanza del malato. “Sono pulite, conservatele gelosamente”. Rosenberg indossa un camice sterile e un paio di occhiali da sci. Li preferisce alle mascherine perché non si appannano. Inserisce un tubo sottile in un’arteria del paziente per monitorarne meglio i segni vitali. Gli interventi eseguiti nella stanza, vicino al paziente, sono quelli con il più alto rischio di contagio.
Rosenberg e la sua équipe analizzano le condizioni di uno dei molti pazienti trattati con un “cocktail covid” composto da idrossiclorochina – un antimalarico presentato dal presidente Donald Trump come una possibile cura per il virus – e l’antibiotico azitromicina. Rosenberg lo chiama lo “speriamo-che-funzioni”, perché la sua efficacia sui pazienti affetti da covid-19 è confermata solo da due studi limitati. Nonostante questo, i medici dell’ospedale lo somministrano spesso nella fase iniziale del ricovero, cercando di scongiurare i danni polmonari che rendono indispensabile il ricorso ai respiratori.
Il mix di farmaci viene generalmente considerato sicuro, anche se in alcuni pazienti può avere effetti collaterali gravi. La sera prima che Rosenberg tornasse in reparto un uomo ricoverato in terapia intensiva ha sviluppato un’aritmia grave ed stato rianimato con un defibrillatore. Il medico ha invitato gli specializzandi a non somministrare più quei farmaci al paziente.
“Non penso che le persone si rendano conto di quanta incertezza ci sia” sull’efficacia delle terapie, sottolinea Rosenberg. “Non esiste un farmaco specifico contro il nuovo coronavirus, ci vogliono solo tempo e pazienza”. L’équipe di Rosenberg ha cominciato a curare alcuni pazienti con un altro farmaco, un antivirale sperimentale chiamato remdesivir. L’ospedale, però, deve chiedere un permesso d’emergenza al produttore del farmaco, Gilead, per ogni singolo caso di covid-19 acclarato.
Il medico dovrà spiegare ai familiari dei ricoverati che non ha senso accanirsi ed è meglio staccare le macchine
“Abbiamo i risultati per quel paziente?”, chiede Rosenberg a un collaboratore. “Non ancora”, risponde un collega. Per avere i risultati dei tamponi, analizzati da un laboratorio dell’azienda Quest, in California, bisogna aspettare circa una settimana, quindi è difficile isolare i pazienti positivi dagli altri, somministrare le dovute cure e se possibile dimetterli. La settimana scorsa gli operatori dei laboratori dell’ospedale di Brooklyn sono riusciti a modificare le loro attrezzature per analizzare i test. Per i medici può essere una svolta decisiva.
Risolto un problema, però, ne è nato un’altro. La settima scorsa l’ospedale è rimasto a corto di un farmaco usato per trattare l’ipotensione grave di alcuni pazienti ricoverati nella terapia intensiva diretta da Rosenberg, e anche di un sedativo somministrato per lenire il fastidio provocato dal respiratore. I medici hanno richiesto farmaci sostitutivi.
Rosenberg è sorpreso dal fatto che il covid-19 colpisce persone di età, etnia e storia clinica così diversa. Di recente alcuni malati che in precedenza versavano in condizioni gravi, per la maggior parte giovani, sono migliorati abbastanza da respirare autonomamente. Ma molti altri, ancora ricoverati, sono anziani arrivati dalle case di riposo e con patologie multiple. Sono i pazienti che solitamente affollano le terapie intensive durante la stagione dell’influenza. Ora molti di loro sono in condizioni critiche. “La prognosi è molto negativa”, spiega Rosenberg parlando di un paziente di più di settant’anni con insufficienza renale. “Probabilmente non ce la farà”.
Come una casa
“Qualcuno ha contattato i familiari?”. Rosenberg ripete la stessa domanda davanti ad altre stanze. “Tutti questi pazienti potrebbero aver bisogno di cure palliative”, dice riferendosi ai casi più gravi. I malati sono soli. Non possono ricevere visite, e i medici chiamano al telefono i familiari per aggiornarli, per ottenerne il consenso prima degli interventi e, in molti casi, per discutere il miglior modo di accompagnare il loro parente verso la morte. Per tutta la settimana Rosenberg dovrà affrontare conversazioni difficili, al telefono e spesso ricorrendo a un traduttore. Dovrà spiegare ai familiari dei ricoverati che non ha senso accanirsi ed è meglio staccare le macchine, cercando di rendere il decesso meno doloroso possibile.
Le leggi statali che regolano lo spegnimento dei respiratori sono molto complicate. La procedura prevede di tenere in vita il paziente fino a quando il soggetto o chi ne fa le veci non chiede di staccare la spina. “Questo significa che è meglio affrontare l’argomento prima che le condizioni del paziente si aggravino, comunicando tutte le informazioni del caso ai familiari”, spiega Rosenberg. “Ma ci sono molti pazienti di età compresa tra cinquanta e sessant’anni che sicuramente non hanno mai pensato a questa eventualità”.
In uno dei rimorchi refrigerati un gruppo di operai sta costruendo dei ripiani dove disporre i corpi
Più che di rimanere senza respiratori, al momento il medico teme di restare a corto di personale e di farmaci. Per questo sta valutando nuovi protocolli sul razionamento elaborati dai medici di altri ospedali, nel caso in cui la situazione dovesse peggiorare. L’obiettivo è espandere la capienza ed evitare di dover limitare le cure.
In tutto questo sta diventando difficile anche dimettere le persone che non hanno più bisogno di stare in ospedale per fare spazio a nuovi pazienti. Rosenberg teme che uno dei suoi pazienti, pronto per lasciare la terapia intensiva, non sarà ammesso in una casa di risposo, perché tutti gli istituti cittadini sono rimasti senza personale. Le autorità governative stanno creando strutture che potranno accogliere i pazienti dimessi, ma per il momento ancora nessuna è operativa.
Perfino la morte non garantisce l’uscita dall’ospedale. Alla fine della settimana la direzione ha ottenuto due rimorchi refrigerati dall’istituto di medicina legale del comune. In uno dei rimorchi un gruppo di operai sta costruendo dei ripiani dove disporre i corpi, perché spesso le agenzie di pompe funebri non sono nelle condizioni di accogliere le salme. Una tenda impedisce che vengano girati altri video.
Nel frattempo i pazienti continuano ad arrivare in terapia intensiva. Alcuni sono legati personalmente a questo ospedale, attivo da 175 anni. “Per noi è come una casa”, ammette la direttrice sanitaria Kondamudi. Antonio Mendez, viceprimario del pronto soccorso, è nato in questo ospedale. Sua madre, Josefina, è ricoverata in terapia intensiva. “È una combattente, e lo sono anche i medici che la stanno curando”, dice Mendez.
Nel suo primo giorno di lavoro dopo la malattia, Rosenberg controlla l’emogasanalisi della donna. È un modo per valutare l’efficacia della respirazione assistita. “Va alla grande”, dice. Poco tempo dopo scopre che uno specializzando che conosce bene è ricoverato al pronto soccorso con sintomi da covid-19 e una radiografia toracica preoccupante. “Dobbiamo portarlo qui”, spiega ai suoi colleghi. “Forse dovrà essere intubato”.
Ma per ricoverare il ragazzo in terapia intensiva c’è bisogno di altro personale. “Ci servono più infermieri, ma sono tutti al limite”, dice Rosenberg. Due infermiere che di solito si occupano del laboratorio di cateterizzazione cardiaca si presentano in reparto e offrono assistenza. Rosenberg mostra tutto il suo apprezzamento, poi, rivolto a loro, dice: “Questo è il nostro calvario”.
(Traduzione di Andrea Sparacino)
Questo articolo è uscito sul New York Times.