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Non abbiamo bisogno di più persone diverse ma di persone diverse

Ava DuVernay, regista del film Selma, a Los Angeles, il 23 dicembre 2014. (Kevork Djansezian, Reuters/Contrasto)

Ava DuVernay, regista di Selma, è una delle più note sostenitrici della diversità nell’industria cinematografica. Però non le piace essere descritta in questi termini. “Non si parla altro che di diversità”, ha dichiarato al Sundance film festival. “Quanto odio questa parola…”.

Secondo DuVernay diversità è “un termine asettico, che non suscita emozioni, mentre qui si tratta proprio di questo. È una questione che tocca le emozioni delle artiste e delle persone non bianche se loro contano meno di altre nella nostra visione del mondo”. La regista preferisce usare parole come inclusione o appartenenza.

La parola “diversità” rappresenta un ideale positivo eppure non è la prima volta che riceve critiche proprio dai sostenitori di questo ideale. L’anno scorso la giornalista Anna Holmes ha scritto sul New York Times che la parola “diversità” ha perso molto del suo significato: “Nella realtà – il che vuole dire le persone vere, non la flora, la fauna o i titoli di borsa – il concetto di diversità è insidioso, perché prende come standard di riferimento un gruppo (i maschi bianchi americani) e indica come Altro chiunque non ne faccia parte”.

Queste considerazioni, per certi versi, riguardano tutte qualcosa di ineffabile. Riguardano un’impressione: l’impressione che una parola che indicava un’idea radicale e importante sia diventata un’espressione vuota, o addirittura ingannevole.

Per avere un ‘tra loro’ c’è bisogno di avere più persone o cose. C’è bisogno di un gruppo

Questa impressione può trovare riscontro nella relativa e inquietante tendenza linguistica a usare “diverso” o “diversa” come parola per descrivere le persone. Nel comunicato stampa che rispondeva alla protesta contro il fatto che anche quest’anno tutti gli attori nominati agli Oscar sono bianchi, la Motion picture academy of arts and sciences ha scritto che il comitato si è impegnato a “raddoppiare il numero di donne e di componenti diversi all’interno dell’academy entro il 2020”.

Raddoppiare il numero di componenti diversi. L’associazione non ha detto di volere che i suoi componenti siano diversi, ma che ci sia un numero maggiore di componenti diversi. Il che significa che un solo essere umano può essere “diverso”.

Ed ecco la definizione del Merriam-Webster: “differente uno dall’altro”, oppure “composto da persone o cose che sono differenti tra loro”. Ma per avere un “tra loro” c’è bisogno di avere più persone o cose. C’è bisogno di un gruppo.

Dal comunicato stampa sembrava che con “persone diverse” l’academy intendesse “persone non bianche”. Delle donne, un altro gruppo poco rappresentato che gli Oscar vogliono includere, si parlava già nella frase citata.

Opinioni politiche, status socioeconomico, orientamento sessuale e altri indicatori di identità non hanno avuto un ruolo centrale nel dibattito e non sono stati menzionati neanche nella spiegazione fornita in seguito dall’academy. Le “persone non bianche” invece sì.

Una società inclusiva

C’è qualcosa di spersonalizzante nel dire quella persona è “diversa”. L’articolo di Holmes citava un altro esempio: “Abbiamo due nuovi partner così diversi che faccio fatica a pronunciare il loro nome”, è stata la battuta dell’investitore John Doerr in un discorso a proposito, eh già, di diversità. Doerr si è poi affrettato a scusarsi.

E all’inizio di gennaio la Cbs ha annunciato la realizzazione di un programma televisivo dove la protagonista, Nancy Drew, è rappresentata in modo molto diverso dal solito. “Non avrà tratti caucasici… sono aperto a qualsiasi etnia”, ha detto il presidente Glenn Geller.

Questi tre esempi provengono da persone o organizzazioni che cercano di aumentare la diversità (o, se preferite, l’inclusività o l’appartenenza). Ma sono anche chiari esempi di come la diversità – uno strumento, un risultato – può cancellare le stesse distinzioni che l’hanno resa necessaria.

Si potrebbe ribattere che è solo una questione di linguaggio. Non abbiamo una parola semplice per indicare “un uomo non bianco” e se alla fine tutti usano “diverso” per dire “uomo non bianco”, che male c’è?

Ma la verità è che alla fine non tutti usano “diverso” per dire “uomo non bianco”, e non è detto che tutti siano tenuti a farlo. A volte il problema sintetizzato dalla parola “diversità” implica il genere e la razza e il sesso e lo status socioeconomico e un numero imprecisato di altri fattori. Altre volte si tratta di uno solo di questi aspetti.

Se una donna nera è una persona diversa, un gruppo formato solo da donne nere è automaticamente un gruppo diverso?

Pochi giorni fa c’è stato un esempio di tale confusione. Variety ha pubblicato un’intervista in cui l’attrice Kristen Stewart dice che le donne devono fare qualcosa per aumentare la loro visibilità nell’industria cinematografica. Ma da come è stato presentato l’articolo sembrava che Stewart parlasse di “diversità”.

Questo ha scatenato sui social network critiche feroci all’attrice, una donna bianca, perché sembrava che incolpasse le minoranze razziali della loro stessa oppressione. Ma non era quello che lei voleva dire, e Variety ha pubblicato una correzione. Il termine “diversità”, usato in modo onnicomprensivo, è stato frainteso.

C’è anche un problema logico-linguistico. Se una donna nera è una persona diversa, un gruppo formato solo da donne nere è automaticamente un gruppo diverso? No, almeno secondo il significato corrente della parola.

Allora come possiamo riferirci alle persone non bianche e alle donne? Che ne dite di “persone non bianche e donne”? Quando parlate di persone omosessuali, bisessuali, transessuali, gruppi divisi in base all’età o alla nazionalità, chiamatele con il loro nome. Oppure ci sono altre parole che possono funzionare, anche se sono meno attraenti. Una è “popolazioni sottorappresentate”.

L’obiezione di DuVernay alla “diversità” sembra riferirsi in parte alla stessa stranezza concettuale che porta alcune persone a descrivere gli individui come “diversi”. Di solito la terminologia accompagna un tentativo di raggiungere un obiettivo ritenuto socialmente desiderabile – ma di fatto senza specificare quale tipo di persone abbia bisogno di raggiungere quell’obiettivo.

La discriminazione razziale è un problema reale, con una storia reale. Anche la disuguaglianza di genere è un problema reale con una storia reale. E si potrebbe continuare l’elenco, scorrendo i gruppi marginalizzati. Molte disuguaglianze possono avere alcune cause e alcune soluzioni in comune. Ma chi vede tutte le persone che non rientrano nella categoria “maschio bianco” come un’unica massa indifferenziata non mostra di volere una società inclusiva e giusta. Mostra proprio di non volerlo un tipo di società giusta e inclusiva.

(Traduzione di Alessandro de Lachenal)

Questo articolo è stato pubblicato su The Atlantic.

This article was originally published on Theatlantic.com. Click here to view the original. © 2015. All rights reserved. Distributed by Tribune Content Agency

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