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Il mare ha bisogno degli squali bianchi

Uno squalo bianco in Messico. (Rodrigo Friscione, Getty Images)

“Le tacche sulla parte posteriore della pinna sono le loro impronte digitali: per identificarli devono essere inquadrate bene, dalla stessa prospettiva”. A parlare è Sara Andreotti, 32 anni, biologa marina, che si è trasferita da Trieste alla baia di Gansbaai, in Sudafrica, per studiare (e salvare) gli squali bianchi.

È lei l’autrice del censimento più accurato finora mai realizzato dei Carcharodon carcharias, predatori che cacciano sulle coste sudafricane da 14 milioni di anni. Per contarli sono serviti centinaia di appostamenti, immersioni in gabbia, fotografie e marcature, documentati sull’ultimo numero della rivista Marine Ecology Progress Series.

Gli studi compiuti da Andreotti sono il frutto di una passione nata quando era bambina. L’interesse per gli squali è cresciuto con le missioni in Sudafrica insieme ai ricercatori universitari dell’associazione Posidonia ed è maturato con la prima tesi sperimentale in Italia sul comportamento degli squali bianchi. “Solo tra il 2009 e il 2011 gli scatti sono stati cinquemila”, spiega la studiosa descrivendo gli anni dopo il suo trasferimento, quelli del dottorato e poi dell’incarico da ricercatrice presso l’Università di Stellenbosch. “La pinna deve essere vicina e perpendicolare rispetto all’obiettivo altrimenti il riconoscimento è impossibile”, aggiunge.

I numeri dell’estinzione
Le fotografie sono state solo uno dei metodi usati. Con l’aiuto di Michael Rutzen, “Sharkman”, 15 anni di immersioni in gabbia e fuori per dimostrare che i mostri di Steven Spielberg esistono solo nei film, sono stati identificati, campionati e catalogati centinaia di esemplari. Il database è stato poi incrociato con più di 300 biopsie, prelevate per l’analisi genetica lungo le coste dell’oceano Indiano e dell’Atlantico.

Il risultato? Al largo del Sudafrica oggi gli esemplari di squalo bianco sarebbero tra i 353 e 522, meno della metà di quanto stimato nei precedenti studi fondati solo sulla marcatura. “Il numero è estremamente basso e, se la situazione non migliorerà, questi predatori rischieranno l’estinzione”, sottolinea Andreotti, “perché una specie possa sopravvivere il minimo indispensabile di esemplari in età riproduttiva è considerato 500, mentre il dato sudafricano non supera i 333”.

Gli squali bianchi sono in cima alla catena alimentare e il loro declino avrà conseguenze gravi sull’intero ecosistema marino

Del pericolo, in realtà, si sapeva da tempo. Nel 1991, a pochi anni dall’elezione di Nelson Mandela e dalla fine del regime di apartheid, il Sudafrica era diventato il primo paese al mondo ad adottare misure per la tutela degli squali bianchi. Vietata la caccia, però, i predatori sono rimasti impigliati nelle reti. Secondo Andreotti e i suoi collaboratori, in Sudafrica tra il 1978 e il 2008 le “misure di protezione antisqualo” hanno ucciso almeno 1.063 esemplari.

Una mattanza dovuta all’impiego di tecniche differenti: dalle reti a maglie larghe fissate in corrispondenza delle aree balneabili, letali anche per foche, delfini e tartarughe, a file di grossi ami con esche ideate appositamente. “Gli squali bianchi sono in cima alla catena alimentare e il declino della loro popolazione avrà conseguenze gravi sull’ecosistema marino nel suo complesso” sottolinea Andreotti: “Tra queste l’espansione delle colonie di leoni marini del Capo, destinata a sua volta a ridurre la presenza di numerose specie e a penalizzare la pesca in tutta la regione”.

Ma lo studio della ricercatrice italiana non si limita a esaminare il Sudafrica. Definisce un metodo e si propone come modello da applicare a livello internazionale, in un contesto segnato da frammentazione e incertezze. Nel 2014 una ricerca della National oceanic and atmospheric administration ha documentato un lieve incremento nella presenza di squali bianchi, fornendo dati in controtendenza ma limitandosi all’analisi della costa orientale degli Stati Uniti.

“Chi sostiene che nel suo complesso la popolazione sia in aumento non si fonda su studi attendibili né su database sufficientemente ampi”, sottolinea Rutzen, il collaboratore di Andreotti: “La verità è che nessuno sa davvero quanti siano gli esemplari rimasti; per questo la nuova tecnica di censimento deve essere applicata ancora, diventando standard di riferimento mondiale”.

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