Gli ambigui silenzi del presidente congolese Joseph Kabila
“Vendeva pesce al mercato e poi tutto a un tratto si è ritrovata con miliardi di dollari”, accusa radio Réveil, un’emittente che ce l’ha da sempre con i gemelli Kabila. Il servizio rilancia le rivelazioni dei Panama papers: tra i clienti dello studio legale Mossack Fonseca figura anche Jaynet Désirée Kabila Kyungu, gemella di Joseph, il presidente della Repubblica Democratica del Congo (Rdc), accusato di calpestare la costituzione per restare in carica e mantenere la presa sull’oro, i diamanti, il coltan e la cassiterite dell’ex Zaire. La società offshore si chiama Keratsu, ha in pancia titoli di Vodaphone Congo ed è stata registrata su un’isoletta del Pacifico meridionale nel 2001: proprio l’anno dell’improvvisa ascesa al potere di Joseph Kabila dopo l’assassinio del padre, Laurent-Désiré, l’ex guerrigliero che aveva rovesciato il dittatore Mobutu Sese Seko.
Uomo dell’occidente, ma pronto a svendere le miniere ai cinesi, fantoccio, dittatore senza “congolité”, di madre tutsi ruandese: nell’arco di quindici anni, dalla nomina a presidente “ad interim” fino agli spari sui manifestanti di Kinshasa, Kabila è stato etichettato e denigrato in tanti modi. Ma chi è davvero questo presidente sopravvissuto alla grande guerra africana, combattuta da sette eserciti, decine di gruppi ribelli, con più di tre milioni di morti, per i giacimenti del Congo?
Trattiene il respiro prima di rispondere Stephanie Wolters, esperta del centro panafricano Institute for security studies (Iss), già direttrice dell’emittente congolese Radio Okapi, una che Kabila l’ha incontrato più volte, prima e dopo che diventasse presidente. “La sua caratteristica più marcata è che si mostra e parla in pubblico di rado. A volte utilizza discorsi scritti trasmessi alla televisione. Non coltiva la sua immagine e questo distacco apparente lo rende ancora più impopolare”, spiega Wolters.
Eppure lo scorso 16 gennaio, alle commemorazioni per il quindicesimo anniversario dell’assassinio del padre, Kabila c’era. Non ha tenuto alcun discorso e anche le foto sui giornali sono state tutte per la moglie con a fianco l’arcivescovo di Kinshasa, il cardinale Laurent Monsengwo. Ma che il presidente ci fosse era un segnale di per sé. Come le leggi di amnistia: i trenta condannati a morte per la congiura contro il padre sono ancora in carcere.
Il presidente più giovane del mondo
Cosa accadde quel 16 gennaio di quindici anni fa? Erano da poco passate le due del pomeriggio e Laurent-Désiré era nel suo studio, nel palazzo presidenziale sul monte Ngaliema. La porta si spalancò e dal cortile arrivarono tre spari: uno lo colpì al collo, due al ventre. Ad aprire il fuoco fu un “kadogo”, un bambino soldato strappato alla famiglia dall’avanzata della guerriglia contro Mobutu. I giudici sostengono che il complotto fu organizzato da un ufficiale, Eddy Kapend, colpevole di aver cercato di “prendere il potere” anche con un appello radiofonico. Ancora oggi si parla però di ribelli sostenuti da Ruanda e Uganda, potenze nemiche prima di Mobutu e poi di Laurent-Désiré; di trafficanti di diamanti angolani e libanesi o, anche, di multinazionali ostili.
Quando fu scelto dai collaboratori del padre, Kabila aveva 29 anni. In dieci giorni diventò il presidente più giovane del mondo. Proprio a lui, di ritorno da un corso di addestramento militare in Cina, quasi uno straniero a Kinshasa perché viene dall’est e preferisce lo swahili al lingala, fu affidato il paese più grande e ricco dell’Africa, dilaniato dalla guerra: dopo la caduta di Mobutu, il maresciallo dai copricapi di leopardo, lo Zaire era stato ribattezzato Repubblica Democratica del Congo ma non aveva trovato la pace. Ruanda e Uganda, i vicini affacciati sui giacimenti del Katanga, del Kivu e delle altre province orientali, avevano voltato le spalle a Laurent-Désiré e appoggiato nuovi ribelli. Una volta al potere, allora, il primo viaggio di Joseph fu proprio a Kigali. In rapida successione seguirono New York, con la Banca mondiale e il Fondo monetario internazionale, Parigi e Bruxelles: rapporti troppo importanti per poterne fare a meno, essenziali per la pace, o quantomeno per non finire come suo padre.
Storia personale e paure di Kabila sono centrali anche per Christophe Rigaud, direttore di Afrikarabia, sito specializzato sulla Rdc: “Nel corso degli anni ha sviluppato un terrore per i colpi di stato. Parlava poco anche da giovane, ma poi questa sua caratteristica è diventata una strategia politica, finalizzata unicamente a garantirgli la permanenza al potere”. Anche durante le campagne elettorali, nel 2006 e nel 2011, gli annunci sono stati affidati a portavoce o a comunicati. I più importanti riguardavano gli accordi di pace con i gruppi armati, integrati nell’esercito e ricomparsi poi con nomi nuovi, associati sempre a Ruanda e Uganda, le stragi di civili e il contrabbando di minerali. O i “cinque cantieri” nazionali: infrastrutture, elettricità, istruzione, lavoro e sanità, simbolo della rinascita congolese, promessa tutta da conquistare in un paese dove l’aspettativa di vita non supera i 49 anni, la terza più bassa al mondo.
Secondo Rigaud, “Kabila s’intromette poco negli affari economici perché lo fa il suo entourage”. Lo confermerebbero l’azienda offshore della sorella Jaynet, ma anche gli affari di Dan Gertler, collaboratore d’origine israeliana, definito nei Panama papers “trafficante di diamanti di sangue”. A nome suo sono intestate aziende con sede alle Isole Vergini britanniche, titolari di concessioni petrolifere nel lago Alberto, al confine con l’Uganda: un tesoro da tre miliardi di barili.
Incertezza sul futuro
Di relazioni come queste Kabila non risponde. In quindici anni non ha concesso più di cinque interviste. E resta in silenzio anche di fronte agli uffici dei partiti dell’opposizione in fiamme e alla polizia che falcia i manifestanti sul boulevard dedicato a Patrice Lumumba, il primo ministro anticolonialista, assassinato pure lui. “Se solo rivelasse le sue intenzioni sul futuro, la crisi politica potrebbe essere risolta”, sottolinea Rigaud. “Kinshasa è a ferro e fuoco, ma lui non chiarisce se si farà da parte rispettando la costituzione”. I partiti di opposizione chiedono che alla scadenza del suo secondo mandato, il prossimo 19 dicembre, si torni al voto. Il governo risponde che bisogna prima aggiornare le liste per non lasciar fuori milioni di elettori, che nel 2011 non erano ancora maggiorenni. Per farlo servirebbero almeno dieci mesi, forse il doppio.
“Se lascerà volontariamente il potere, Kabila diventerà un padre della democrazia ma se non lo farà lo caccerà il popolo e dovrà affrontare la giustizia”, sostiene Moïse Katumbi. Che di ingiustizia ne sa qualcosa. Ex governatore della provincia del Katanga, proprietario della più importante squadra di calcio congolese, si è trasferito in Sudafrica dopo aver denunciato tentativi di avvelenamento. Nel frattempo ha subìto una condanna a tre anni di carcere per la compravendita illegale di una casa, quanto basta per impedirgli di candidarsi alla presidenza, e un’incriminazione per aver attentato alla “sicurezza dello stato” assoldando mercenari stranieri. Un’accusa tutta politica, sostiene Katumbi, come quelle costate il carcere agli attivisti di Lutte pour le changement (Lucha) o la vita a Floribert Chebeya, direttore dell’ong Voix des sans-voix, assassinato dopo essersi presentato in caserma.
Qualcuno aspetta la prossima mossa, ma è possibile che Kabila voglia ancora prendere tempo. Rigaud ricorda le “consultazioni nazionali” annunciate nel 2013, convocate dopo sette mesi e mai cominciate davvero. O i continui ripensamenti, stalli e passi indietro che seguono immancabilmente l’approvazione di una legge o un rimpasto di governo. Kabila tasta il terreno. Con il calo dei prezzi dei minerali e dei consensi, non solo a Kinshasa ma anche nelle roccaforti dell’est, vuole rischiare il meno possibile. Lo suggerisce una rara intervista concessa nel 2006 dalla madre, “la ruandese”: “Prima di agire, riflette. Non è mai stato un bambino irrequieto. Era calmo, parlava poco. Se si arrabbiava, non lo dava a vedere”.