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L’inchiesta infinita sulla misteriosa morte di Dag Hammarskjöld

Il segretario generale dell’Onu Dag Hammarskjöld in visita ufficiale in Congo, 1960. (Terence Spencer, The Life images collection/Getty Images)

Pochi minuti alla mezzanotte. Il segnale radio del Dc-6 Albertina si perde nella giungla. Lo schianto del quadrimotore avviene a qualche chilometro dalla pista dell’aeroporto di Ndola, una città nell’allora Rhodesia Settentrionale (oggi Zambia). È il 18 settembre 1961. A bordo, insieme ad altre 15 persone, c’è il segretario generale delle Nazioni Unite, lo svedese Dag Hammarskjöld. Ancora oggi ci chiediamo se sia stata una fatalità o un attentato, in piena guerra fredda, mentre il diplomatico svedese era impegnato a trovare una via di pace tra il nuovo Congo indipendente e il Katanga secessionista sostenuto dalla compagnia mineraria belga Union minière du Haut Katanga e dai suoi mercenari.

“Non voglio anticiparvi il finale, ma a un certo punto, mentre scrivevo, ho avuto l’impressione di andare nella direzione sbagliata”, osserva Ravi Somaiya, ex corrispondente del New York Times, ora autore di The golden thread: the cold war and the mysterious death of Dag Hammarskjöld (Il filo d’oro: la guerra fredda e la misteriosa morte di Dag Hammarskjöld, uscito a luglio del 2020 per la casa editrice statunitense Twelve). Seguendo un “filo d’oro” di documenti, indizi e testimonianze il libro ci porta più vicino a una soluzione del mistero. “Adesso non abbiamo solo le prove di un crimine”, dice Somaiya, “ma anche la dimostrazione sorprendente degli sforzi enormi che continuano a essere fatti perché quel crimine resti sepolto nella storia”.


È l’alba. Le ricerche del relitto dell’aereo partono con dieci ore di ritardo, mentre spariscono i registri della torre di controllo, mai più ritrovati. Di strane coincidenze si comincia a parlare subito, non appena dalla giungla si dirada la nebbia. A Kansas City sono da poco passate le undici del mattino e, vicino a un edificio modernista con un colonnato bianco, è in corso una cerimonia. A parlare è l’ex presidente statunitense Harry Truman (1945-1953). Ringrazia i soldati della 35ª divisione di fanteria che hanno regalato quasi settemila dollari alla biblioteca della sua città, la stessa dove lui studiava quand’era ragazzo. Concluso il discorso, però, Truman ha l’aria grave. Alcuni giornalisti sono già andati via e lui quasi sussurra: “Hammarskjöld stava per ottenere qualcosa quando l’hanno ucciso. Notate bene, ho detto ‘l’hanno ucciso’”. Volta le spalle al cronista che gli sta facendo una domanda e se ne va.

Il giorno dopo sul quotidiano locale Independence Examiner non c’è una riga. E nei lanci dell’agenzia United Press International quella frase non merita il titolo ma solo l’ultimo paragrafo della notizia. Nel 1953 l’appoggio di Truman era stato decisivo perché Hammarskjöld fosse eletto come secondo segretario generale nella storia delle Nazioni Unite. “Economista di formazione, parlava cinque lingue ed era anche poeta e fotografo”, ricorda Somaiya. “Sembrava davvero una persona di princìpi ed era pronto a sacrificarsi nel loro nome: voleva che il Congo potesse avere il suo governo, senza essere ostaggio delle potenze straniere, e sognava un’organizzazione delle Nazioni Unite più forte e indipendente”.

Al centro di uno scontro geopolitico
The golden thread riparte da dove è arrivata l’ultima inchiesta dell’Onu, conclusa nel settembre 2019 dal procuratore tanzaniano Mohamed Chande Othman, e non arretra di fronte all’esigenza di formulare un giudizio storico. Tra i passaggi decisivi ci sono alcune carte inedite scovate nello Zimbabwe e il superamento degli ostacoli posti dal governo americano, con buona pace della libertà d’informazione. La tesi è che non ci sia stata solo la volontà di occultare indizi o documenti probanti. I governi avrebbero temuto di rivelare modalità operative sconvenienti, che ritornano nel corso del tempo, in particolare per quanto riguarda i servizi segreti e le loro relazioni pericolose.

Nel 1961 il Congo era al centro di uno scontro geopolitico dalle ripercussioni globali. Otto mesi prima che l’Albertina prendesse fuoco – “nel cielo ho visto scintille”, disse l’unico superstite, poi morto in ospedale – c’era stato l’omicidio di Patrice Lumumba. Anima del partito Mouvement national congolais, anticolonialista e panafricanista, Lumumba era stato eletto primo ministro pochi giorni prima della proclamazione dell’indipendenza dal Belgio, il 30 giugno 1960. Il timore di statunitensi e britannici era che potesse cercare una sponda nell’Unione Sovietica per sottrarsi alla stretta degli ex colonizzatori, che con la loro Union minière controllavano i giacimenti di uranio del Katanga e ostacolavano una soluzione nazionale alla crisi. Nella capitale Léopoldville (oggi Kinshasa) c’era stato un golpe, mentre a Élisabethville (oggi Lubumbashi), la città da dove sarebbe decollato per l’ultima volta l’Albertina, si era insediato un governo secessionista. L’ormai ex primo ministro fu arrestato e consegnato ai ribelli e ai mercenari europei che li sostenevano.

Se ne continua a parlare ancora sessant’anni dopo, anche nelle aule giudiziarie, in modo forse sorprendente. Di recente, con un gesto simbolico, la procura federale di Bruxelles ha ordinato la restituzione di un dente di Lumumba alla sua famiglia. A chiederla era stata una delle figlie, dopo che un poliziotto belga aveva ammesso di essersi impossessato di alcuni resti del corpo del padre mentre lo faceva sparire sciogliendolo nell’acido.

Contro Lumumba erano già stati pianificati tentativi di assassinio. Uno di questi era stato svelato nel 1975 da una commissione d’inchiesta del senato statunitense: la Cia avrebbe dovuto ucciderlo avvelenando il suo dentifricio. Trame che rendono The golden thread avvincente come un romanzo di spionaggio. Ecco allora la descrizione della Citroën 2 cavalli blu di Daphne Park, agente segreta dell’Mi6 britannico a Léopoldville. “Rombava e accelerava quasi che a spingerla fosse solo l’entusiasmo”, annota Somaiya, raccontando di una città caotica e affascinante, dove tutto era possibile. Di Park vengono citati alcuni rapporti e informative, anche se sono scomparsi proprio quelli relativi ai giorni dell’incidente aereo. Resta, però, una frase, che Park pronunciò sorseggiando il tè con un lord inglese pochi giorni prima di morire. “We did it”, siamo stati noi, rispose la donna a una domanda sull’assassinio di Lumumba. Un modus operandi, a credere a quelle parole, che potrebbe essere utile a far luce anche sul caso Hammarskjöld.

Un blitz disastroso
La missione congolese del segretario generale dell’Onu era cominciata cinque giorni prima, il 13 settembre 1961. Il suo obiettivo era mettere fine alla rivolta nel Katanga, spingendo i mercenari, nemici della pace per definizione, a ritirarsi. Lo stesso giorno in cui Hammarskjöld arrivò in Congo, i soldati del contingente per il mantenimento della pace delle Nazioni Unite lanciarono un’operazione militare a Élisabethville. Due unità circondarono la sede delle comunicazioni radiofoniche e la casa di Godefroid Munongo, ministro dell’interno del governo secessionista guidato da Moïse Tshombe, ma soprattutto figura di collegamento con i mercenari (oggi Munongo è anche protagonista di un fumetto).

I caschi blu avevano a disposizione delle bandiere congolesi da sventolare in segno di vittoria, ma il blitz si trasformò in una battaglia. Il bilancio delle vittime fu stimato tra le 30 e le 200, in gran parte katanghesi, ma anche caschi blu. “O Hammarskjöld ha sbagliato o i suoi uomini hanno agito di testa loro”, si legge in un rapporto consegnato all’indomani sulla scrivania del primo ministro britannico Harold Macmillan. “Se non interveniamo con risolutezza insieme agli statunitensi in una sola settimana verrà cancellato tutto il lavoro fatto nell’ultimo anno: il Congo sarà consegnato alla Russia, le proprietà dell’Union minière saranno nazionalizzate e gestite dai comunisti russi, e in Africa si creerà una situazione molto pericolosa”.

Non è chiaro se, e in che termini, Hammarskjöld autorizzò il blitz contro i secessionisti. In Congo non rilasciò commenti. Ma volle andare in Rhodesia, dove si erano rifugiati Tshombe e Munongo. Voleva raggiungere un cessate il fuoco che prevedesse la partenza dei mercenari dal Katanga. Fu fissato un appuntamento con Tshombe per la mattina del 18 settembre a Ndola “nell’ufficio piccolo e squallido del direttore dell’aeroporto coloniale”, annota Somaiya. L’incontro non si tenne mai.

Il resto è un’indagine aperta, con ancora tanti punti interrogativi ma anche dei punti fermi. Li ha ricordati un anno fa l’attuale segretario generale dell’Onu, António Guterres, invitando ancora una volta gli stati a desecretare e a rendere disponibili tutte le informazioni sul caso. “Sulle cause possibili dello schianto”, ha scritto, “sono stati acquisiti nuovi elementi in particolare rispetto a intercettazioni di comunicazioni rilevanti da parte di governi, la capacità delle forze armate del Katanga e di altri di intraprendere un attacco contro l’aereo, nonché la presenza nella zona di paramilitari stranieri, compresi piloti, e di agenti dell’intelligence”.

L’inchiesta coordinata dal procuratore Othman conferma l’ipotesi che sulla pista di Kolwezi, feudo dell’Union minière e dei secessionisti, ci fossero almeno due caccia Fouga Magister di provenienza francese. Con l’ex assistente personale di Hammarskjöld ne aveva parlato già nel 1967 uno dei piloti, un mercenario belga identificato come De Beukels. Sarebbe stato lui a fare fuoco, con cannoncini da 75 millimetri, colpendo “per errore” il Dc-6 nel tentativo di affiancarlo e dirottarlo verso una base ribelle. Ma non è solo la verità giudiziaria che interessa a Somaiya. Secondo lui, “è giusto rendere omaggio a un leader politico molto differente da quelli di oggi, spesso convinti che il loro interesse sia dividere più che unire”.

La storia si ripete
Di divisioni e ingiustizie si parla ancora oggi riguardo alla Repubblica Democratica del Congo (Rdc). Il 1 ottobre saranno passati dieci anni dall’uscita del Rapport mapping, uno studio delle Nazioni Unite che ricostruisce giorno per giorno dieci anni di incursioni dei ribelli, di ingerenze straniere e di crimini di guerra nei confronti della popolazione civile commessi tra il 1993 e il 2013 soprattutto nell’est della Rdc. Secondo Arnold Nyaluma, portavoce della rete di associazioni del Sud Kivu – un’altra provincia ricca di risorse minerarie, tra cui uranio, coltan e cobalto – “l’obiettivo del rapporto era aiutare il governo congolese a individuare e a punire i responsabili, ad assicurare risarcimenti alle vittime e a fare in modo che crimini del genere non si ripetessero mai più”.

La tesi è che anche le province del Nord Kivu e Sud Kivu, come lo fu il Katanga, siano ostaggio di ribelli al soldo delle potenze straniere e delle multinazionali loro alleate. “In dieci anni queste raccomandazioni non hanno avuto nessun seguito”, denuncia Nyaluma. “Ora bisogna sostenere la richiesta del premio Nobel per la pace Denis Mukwege perché sia creato un tribunale internazionale per il Congo, che non deve restare un bastione dell’impunità”.

Trent’anni fa l’ex ministro katanghese Godefroid Munongo aveva promesso verità e giustizia riguardo l’omicidio di Lumumba e la morte di Hammarskjöld. Sarebbe stata la prima volta. Era il 28 maggio 1992. Si era svegliato alle quattro e mezza del mattino e aveva chiesto alla moglie di preparare pollo e patate dolci per una serata di festa. Munongo aveva preso posto al suo banco alla Conférence nationale souveraine (un grande dibattito nazionale sul futuro del paese che andò avanti per un anno e mezzo), ospitata dal parlamento congolese. Avrebbe dovuto tenere il suo discorso alle cinque del pomeriggio, ma era stato avvicinato da alcuni contestatori, che gli avevano sbattuto davanti dei giornali che lo accusavano dell’assassinio di Lumumba. Lui si era sentito male e aveva cominciato a soffocare. È morto poche ore dopo in ospedale, senza aver detto una parola. I suoi familiari sostengono che sia stato avvelenato con polvere di karuho, un veleno ottenuto da una pianta locale.

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