L’altra faccia di Goma
A Goma, nell’est della Repubblica Democratica del Congo, c’è un collettivo nato dalla passione di due fotografi ai quali si stanno affiancando nuovi colleghi. Ci dicono che vivono per gli altri prima che per se stessi, perché il loro lavoro è così. E che vogliono far passare un messaggio, portandolo nelle strade e nelle periferie della loro città, fino al fronte della lava del Nyiragongo, dove la coltre nera ha inghiottito le prime case di Buhene, un quartiere abbandonato a maggio del 2021 per l’eruzione del vulcano e già tornato a vivere.
“Sono storie di resilienza e coraggio”, sorride in collegamento video Arlette Bashizi, 22 anni, fondatrice del Collectif Goma œil insieme con il collega Moses Sawasawa, che di anni ne ha 23. Entrambi sono convinti che la parola chiave sia “comunità” e che la fotografia sia prima di tutto testimonianza di vita quotidiana: nei mercati, all’uscita delle scuole, nei villaggi, forse dappertutto meno che al museo o in una sala esposizioni. “Vogliamo comunicare il mélange e l’incontro di culture, diversità e prospettive, rivolgendo l’obiettivo su quelle storie del Congo che all’estero nessuno racconta”, sottolinea Bashizi. All’inizio non è stato facile. “Sono cresciuta con cinque sorelle e un fratello”, ricorda la fotografa. “Per cominciare a guadagnare qualcosa ho lavorato come centralinista in una radio e poi sono stata impiegata in banca, anche se è durata poco: fin da piccola la mia passione era raccontare le persone, le storie e la vita che mi circonda”.
Il sogno da bambina era diventare giornalista, poi c’è stata la scoperta di un altro linguaggio, quello delle immagini. “Anche se molti dicevano che quello del fotografo non è un mestiere per donne, ci ho provato lo stesso: oggi credo sia stata una delle decisioni migliori della mia vita”. La svolta è arrivata intorno ai 18 anni ed è maturata, giorno dopo giorno, con ore e ore a guardare tutorial su YouTube. Poi c’è stata la partecipazione a Lens on Life, un progetto sperimentato a partire dal 2016 a Brooklyn e in seguito a Goma, in alleanza con l’organizzazione non governativa congolese Camme. La ricetta prevede corsi pratici di fotografia rivolti a ragazzi di aree svantaggiate, perché possano raccontare le loro comunità e crearsi opportunità di lavoro, magari cominciando da servizi per matrimoni o seguendo iniziative pubbliche. Bashizi si è messa alla prova e ha continuato con alcune borse di studio, una residenza d’artista in Belgio, una mostra a Londra e i primi riconoscimenti internazionali. Tra questi c’è l’Agenda 2063 women’s photojournalism award, un premio ideato da un gruppo su Facebook per promuovere le autrici con origini africane impegnate a contrastare stereotipi e pregiudizi.
A Goma oggi i fotografi si guadagnano da vivere soprattutto come freelance. Bashizi collabora con ong e agenzie delle Nazioni Unite. Il suo obiettivo prova a cogliere le sfumature e le diversità della società seguendo quasi naturalmente i giovani e le ragazze. “Credo nelle loro capacità e potenzialità”, sottolinea la fotografa: “Nel mio lavoro occupano un posto speciale, anche nella serie Reconstruction in mostra a Londra, che è un omaggio alle congolesi”.
Forse più spesso che altrove, a Goma i progetti a lungo termine devono tenere conto di fatti di cronaca che stravolgono i piani quotidiani. Nella città e nella regione circostante, a ridosso dei confini orientali del Congo, operano gruppi armati e ribelli, addirittura più di 120 secondo l’osservatorio Kivu security tracker.
Cronaca ed emergenza tornano negli scatti di Sawasawa, l’altro fondatore del Collectif Goma œil, autore di servizi anche per agenzie di stampa e organizzazioni internazionali come la France-Presse o Medici senza frontiere (Msf). “Nella nostra professione ci sono ostacoli ogni giorno” ci dice. “Dobbiamo metterci in testa che siamo fotoreporter e che bisogna essere pronti a essere dappertutto in qualsiasi momento, senza scuse”.
La zona è la stessa dove esattamente un anno fa, il 22 febbraio 2021, sono stati assassinati in un agguato l’ambasciatore italiano Luca Attanasio, il carabiniere Vittorio Iacovacci e l’autista del Programma alimentare mondiale Mustapha Milambo. Il mese scorso, in relazione a quei fatti, sono stati annunciati due arresti.
Oggi però Sawasawa vuole parlare di un altro paese. “È quello che per decenni i mezzi d’informazione stranieri non hanno mai raccontato né capito”, denuncia, “e che anche per questo sarà il cuore del lavoro del Collectif”.
In primo piano ci sono allora soprattutto i volti, la forza e l’impegno. Basta guardare le foto. Con le magliette infangate, cercatori d’oro scrutano sassi per indovinare un bagliore. Delle donne con gli scatoloni sulle spalle, mentre si arrampicano immaginando un sentiero alle pendici del vulcano. Sono scatti di Goma senza limiti, Sans limite, come s’intitola la serie del Collectif in mostra lungo il fronte della lava. L’esposizione, sul tema della disabilità, ha fatto tappa nel dicembre scorso in quattro quartieri per poter raggiungere il maggior numero di persone possibile e combattere lo stigma con più efficacia.
“In città vediamo tante persone con disabilità piene di motivazione e di coraggio”, sottolinea Bashizi. Condivide sullo schermo immagini di incontri di boxe, “un’occasione per tanti ragazzi di uscire dall’oscurità”, dice, o partite di basket su sedie a rotelle. A Buhene ne ha parlato con i ragazzi di ritorno da scuola con gli zaini sulle spalle. Il messaggio, messo a fuoco anche grazie a quegli incontri, non si ferma ai confini dell’Rdc. “Ci sono persone”, scandisce Bashizi, “che si spingono oltre il loro handicap fisico mettendo in discussione il concetto stesso dei limiti che alla fine, nella vita, tutti ci poniamo”.
Due dipendenti del Programma alimentare mondiale (Pam), un’agenzia delle Nazioni Unite, potrebbero essere processati per la morte dell’ambasciatore italiano Luca Attanasio e del carabiniere Vittorio Iacovacci, uccisi nella Repubblica Democratica del Congo il 22 febbraio 2021. Attanasio e Iacovacci viaggiavano in un convoglio del Pam partito da Goma e diretto a Rutshuru, nella zona del parco di Virunga, e sono stati uccisi da un gruppo armato durante un tentativo di sequestro.
La procura di Roma ha chiuso le indagini e ora i due dipendenti del Pam potrebbero essere rinviati a giudizio con l’accusa di omicidio colposo.
Secondo quanto ricostruito dagli inquirenti i due funzionari hanno “omesso, per negligenza, imprudenza e imperizia ogni cautela idonea a tutelare l’integrità fisica dei partecipanti alla missione Pam che percorreva la strada Rn2 sulla quale, negli ultimi anni, vi erano stati almeno una ventina di conflitti a fuoco tra gruppi criminali ed esercito regolare”.
Gli indagati, spiega ancora la ricostruzione degli inquirenti, “avrebbero attestato il falso, al fine di ottenere il permesso dagli uffici locali del dipartimento di sicurezza dell’Onu, indicando nella richiesta di autorizzazione alla missione, al posto dei nominativi dell’ambasciatore Attanasio e del carabiniere Iacovacci, quelli di due dipendenti Pam, in quanto non avevano inoltrato la richiesta, come prescritto dai protocolli dell’Onu, almeno 72 ore prima”.
Inoltre “avrebbero omesso, in violazione dei protocolli, di informare cinque giorni prima del viaggio la missione di pace Monusco che è preposta a fornire indicazioni specifiche in materia di sicurezza informando gli organizzatori della missione dei rischi connessi e fornendo indicazioni sulle cautele da adottare”.
Secondo la procura i funzionari del Pam non hanno preso in considerazione la classificazione di rischio attribuita al percorso (alcuni tratti classificati verdi, cioè a basso rischio, ma altri classificati gialli, cioè a rischio medio): avrebbero dovuto quindi indossare, o avere reperibili, il casco e il giubbotto antiproiettili. Inoltre, data la presenza di un ambasciatore, un soggetto ritenuto particolarmente a rischio, avrebbero dovuto usufruire di veicoli blindati, che il Pam aveva in dotazione a Goma e che sarebbero stati assicurati al carabiniere Iacovacci prima della partenza.