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Nella carovana di migranti ci sono tutti i problemi dell’America Centrale

Migranti viaggiano su un camion a Loma Bonita, nello stato messicano di Oaxaca, il 3 novembre 2018. (Rodrigo Abd, Ap/Ansa)

Il 4 novembre 2018 centinaia di migranti centroamericani, partiti dall’Honduras il 12 ottobre per raggiungere gli Stati Uniti, sono arrivati a Città del Messico. Le autorità della capitale gli hanno offerto accoglienza e cibo nello stadio Jesús Martínez “Palillo”. Molti migranti sperano che la capitale messicana sia un punto di ritrovo per gli altri gruppi partiti dal Salvador, dall’Honduras e dal Guatemala in momenti diversi. Il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, ha definito la carovana “un’invasione” e ha annunciato che schiererà cinquemila soldati alla frontiera per bloccarla.

Non c’è stato bisogno di cospirazioni del signor Trump né di manovre segrete da parte di George Soros né di un piano dei terroristi islamici, di progetti dei democratici americani o dei politici di sinistra honduregni. La carovana dei migranti è stata una sorpresa soltanto per coloro che scoprono solo oggi i migranti e le loro ragioni per fuggire; per coloro che solo oggi – dopo anni dalla nascita del corridoio umano più grande del mondo, che va da Tegucigalpa al deserto dell’Arizona – prestano attenzione ai centroamericani espulsi dai loro stessi paesi.

Questa carovana, che da quando è partita si è moltiplicata, non è una sorpresa. È bastato un semplice appello su Facebook per entusiasmare migliaia di persone e convincerle a fuggire in massa. I movimenti, in questi tempi, si auto-convocano. Anche quelli che protestano scappando.

Nonostante le bugie di Donald Trump, le persone che prendono parte a queste carovane non sono criminali che cospirano per invadere gli Stati Uniti. Sono uomini e donne disperati, così disperati da portare i loro bambini in braccio per quattromila chilometri. Se si uniscono in una carovana, in file di persone che si perdono nell’orizzonte, lo fanno per evitare alcuni dei rischi affrontati da piccoli gruppi che attraversano il territorio messicano, controllato da bande criminali.

Da cosa stanno fuggendo queste persone per rischiare la propria vita in questo modo?

Nel suo rifugio a Ixtepec, nello stato messicano di Oaxaca, il prete Alejandro Solalinde accoglie da anni migranti che arrivavano esausti, aggrediti da tutti i tipi di bande, picchiati o saccheggiati dalle autorità messicane; donne stuprate lungo il cammino; persone salve per miracolo. Una volta Solalinde chiese: “Da cosa stanno fuggendo queste persone per rischiare la propria vita in questo modo?”.

Continua a essere una domanda valida se vogliamo capire questa carovana. Al di là di chiedere chi li ha organizzati, chi ha inserito il primo annuncio e chi guida questi gruppi, la domanda più pertinente è quella di Solalinde. Da cosa fuggono queste migliaia di persone, anche con dei bambini in braccio? Perché intere famiglie fuggono, esponendosi a un percorso crudele, ai territori controllati dai narcotrafficanti, alla violenza sessuale, al sequestro e oggi perfino alle minacce del presidente degli Stati Uniti di inviare l’esercito per arrestarli? Cosa li fa scappare?

Gli honduregni che hanno avviato questa nuova forma di migrazione in gruppo stanno fuggendo proprio dal mostro antidemocratico creato in Honduras dagli Stati Uniti. Quella bestia è emersa dalla tolleranza nei confronti del colpo di stato nel 2009, è stata ulteriormente confermata dalla rielezione fraudolenta, appena un anno fa, del presidente Juan Orlando Hernández e della sua cricca di leader corrotti e legittimati da Washington.

La carovana che sta arrivando a Città del Messico fugge da un insopportabile accumulo di violenze, corruzione, povertà e criminalità organizzata che ha chiuso qualsiasi possibilità di una vita dignitosa. Gli honduregni fuggono da un governo corrotto, da un’opposizione corrotta e da ripetute bugie in cui non credono più.

Migliaia di persone hanno seguito l’esempio degli honduregni e ora stanno organizzando le loro carovane nei paesi della regione. Fuggono dalla repressione di un tiranno in Nicaragua e dalle delusioni di un presidente corrotto e inetto in Guatemala. Fuggono dall’incapacità dei governi salvadoregni, sia di estrema destra sia di estrema sinistra, di porre fine agli omicidi, alla disuguaglianza e alla corruzione. Fuggono dalla violenza esercitata dai componenti delle bande criminali espulsi dagli Stati Uniti, un paese che chiede lealtà in cambio di briciole, nonostante abbia le stesse responsabilità per la situazione della regione. Fuggono da élite inerti e da decenni di attesa per un futuro che non arriva mai.

Quello che oggi rappresenta meglio l’America Centrale non sono i governi, i corpi diplomatici o le bandiere; sono le persone che prendono parte a queste carovane, che a ogni passo trasmettono un messaggio coerente e inconfutabile sulla realtà nella regione.

Con la loro fuga, questi uomini e donne definiscono ciò da cui stanno fuggendo: una terra dove non esiste più la possibilità di una vita dignitosa per se stessi e nessun futuro per i loro figli. La loro possibilità di essere presi in considerazione sembra così remota, che in El Salvador nessuno dei quattro candidati alla presidenza ha preso posizione in difesa o contro le minacce di Trump. Per il futuro presidente, chiunque sia eletto, l’obiettivo di rimanere in buoni rapporti con gli Stati Uniti è più importante che assicurare il benessere della propria popolazione; e vincere il voto è più importante che offrire una soluzione alle ragioni sistemiche che fanno fuggire i centroamericani. E continuano a fuggire, ora in massa, perché il silenzio dei leader politici non li renda invisibili.

In queste carovane si trovano le chiavi di tutti i problemi della regione, tra cui il Messico e gli Stati Uniti. La soluzione non è fermarli con la forza, perché questi migranti non sono il problema. I tentativi di criminalizzare la carovana sfuggono alle difficili domande necessarie per risolvere le cause della migrazione. È un atto di vigliaccheria. Dà la colpa ai migranti delle risposte che i governanti della regione, da Managua a Washington, non sono stati in grado di fornire.

(Traduzione di Stefania Mascetti)

Questo articolo è stato pubblicato dal quotidiano salvadoregno El Faro.

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