Marat Safin, Melbourne, 2004
Il 30 gennaio 2004 alla Rod Laver arena di Melbourne si affrontarono per le semifinali dell’Open di Australia, uno dei quattro tornei di tennis più importanti, Andre Agassi e Marat Safin. Lo statunitense di origini assire e armene (via Ucraina, Turchia e Iran) contro il russo di famiglia tatara.
Agassi era alla fine di una carriera che l’aveva visto enfant terrible, promessa mancata e vicino al ritiro, prima di una resurrezione che ne aveva fatto uno dei dominatori del gioco. Marat Safin aveva avuto una traiettoria simile: grande promessa, numero uno del mondo a vent’anni e alla deriva. Gli mancava solo il capitolo della resurrezione, e nei giorni prima della partita alcuni avevano cominciato a credere che proprio questo torneo lo avrebbe riportato alle vette che gli competevano, ma che aveva solo fugacemente assaporato. Agassi era in fase calante, senza niente da perdere e ormai libero di giocare con la serenità che non aveva avuto nella prima parte della sua carriera.
Il russo – talento cristallino, quasi spudorato, e carattere difficile – era arrivato in Australia come numero 86 del mondo. Nonostante i pessimi risultati dei mesi precedenti, aveva eliminato uno dopo l’altro avversari di livello. Per ironia della sorte, dal terzo turno in poi gli erano toccati solo avversari statunitensi: Todd Martin, James Blake, l’allora numero uno del mondo Andy Roddick e Agassi. Oggi è possibile rivedere tutta la partita, una maratona di quasi duecento minuti, ammirandone i capovolgimenti di risultato e psicologici.
Ma la si apprezza anche nella sintesi di una ventina di minuti.
Vista oggi, viene un po’ di rabbia a pensare al talento sprecato di Safin, che riuscì a complicarsi la vita dopo essere passato in vantaggio due set a zero. E si prova inevitabilmente ammirazione per la resistenza e la tigna di Agassi, soprattutto nel rispondere alle fucilate su servizio di un avversario molto più giovane, alto e prestante.
Sempre col senno di poi, è possibile vederla come una delle ultime partite prima del dominio incontrastato dei big 4 sul tennis mondiale: Roger Federer, Rafael Nadal, Novak Djokovic e, un gradino più in basso, Andy Murray. Dopo aver battuto Agassi, Safin trovò in finale proprio l’allora ventitreenne Federer, che lo liquidò in tre set, vincendo il primo dei suoi sei Open d’Australia. Safin diede la colpa della sconfitta alla fatica accumulata. Non fu in realtà il suo ultimo momento di gloria. L’anno successivo trionfò proprio in Australia, per lui seconda e ultima vittoria in un torneo del Grande Slam. Prima di perdersi di nuovo, vittima degli infortuni, di avversari fenomenali e, soprattutto, del suo stesso carattere.
In capo al mondo
C’è un episodio della sua vita che ha senso rievocare, in questi giorni di auto-isolamento forzato. Nel 2007, poco prima della semifinale di coppa Davis, Safin – che per la verità non è mai stato un tipo paziente – venne colpito da un’illuminazione: il suo mondo non era davvero il tennis, troppo vacuo e frustrante. L’impulso era irresistibile: lasciarsi alle spalle il circuito tennistico e avventurarsi in alta montagna, lontano dalle masse.
Piantò in asso i suoi compagni di squadra e raggiunse Katmandu. Lì ritrovò sé stesso, ponendosi obiettivi di un altro tipo: scalare una delle montagne più alte del pianeta. L’Everest era troppo impegnativo, così ripiegò sul Cho Oyu, la sesta vetta più alta del mondo. Safin si aggregò a una spedizione, raggiungendo il campo base da cui partivano le scalate. Cosa accadde in seguito non è chiaro. Pare che dopo essere arrivato fin lì e aver valutato la situazione, abbia giudicato l’impresa troppo faticosa e pericolosa. Di sicuro fece marcia indietro e ritornò nel mondo che aveva frettolosamente abbandonato.
Senza di lui, naturalmente, la Russia perse in casa la finale di Coppa Davis contro gli Stati Uniti. Safin fece un breve rientro nel mondo del tennis professionistico, abbandonandolo definitivamente nel 2009. Due anni dopo si accomodò sui banchi della Duma, il parlamento russo, eletto con il partito di Vladimir Putin. Dopo qualche anno si stancò anche di quel mondo, e andò alla ricerca di nuove sfide.
(Testo di Federico Ferrone e Alessio Marchionna)