Addio alla gioventù in Egitto
Ho visto per la prima volta il mostro nel 2005, al Cairo, in centro, davanti al sindacato dei giornalisti. Si era radunata una folla di giovani, ragazzi e ragazze, che scandiva “kifaya!” (basta!). Il mostro è piombato giù dagli automezzi della polizia. Era in divisa militare, ma anche camuffato in abiti civili, e picchiava i dimostranti. I maschi venivano trascinati sul selciato, alle femmine venivano strappati i vestiti. È stato molto traumatico. Pensavamo che fosse la cosa peggiore che il mostro potesse farci.
Pensavamo che con l’amore, e incoraggiando gli altri a venire con noi per strada, saremmo diventati più numerosi, che dalle poche centinaia che eravamo saremmo diventati centinaia di migliaia, forse milioni. È così che avremmo sconfitto il mostro. I giovani sono ingenui, hanno buoni sentimenti e un cuore puro.
Avevo incontrato la stessa ingenuità cinque anni prima. Nel 2000 ero uno studente del liceo quando mi unii alle manifestazioni di solidarietà degli studenti con la seconda intifada, che era cominciata dopo due avvenimenti: il criminale di guerra e futuro primo ministro israeliano Ariel Sharon aveva visitato la moschea di al Aqsa scatenando la rivolta dei palestinesi, e un ragazzo di 12 anni, Mohammed al Durrah, era morto tra le braccia di suo padre sotto i colpi dell’esercito israeliano. I nostri insegnanti ci incoraggiavano a manifestare, ma loro non lo facevano. Sfilavamo in piccoli gruppi furibondi chiedendo libertà per la Palestina e giurando che non avremmo mai dimenticato Al Durrah. Le forze di sicurezza ci autorizzarono ad aprire i cancelli delle scuole e dei licei, e a manifestare in gruppi più numerosi percorrendo le strade di Mansoura, dove ho passato gli anni dell’adolescenza.
I ragazzini e gli studenti che mi circondavano erano pazzi di gioia perché avevano ottenuto il diritto di gridare. Per la prima volta si sentivano liberi per strada. Quando i gruppi di studenti in corteo s’incontravano si sorridevano in maniera un po’ scema, come dei bambini, e c’erano saluti e grandi scambi di abbracci un po’ troppo teatrali. A Mansoura, come nel resto del paese, le scuole sono separate per genere. Era straordinario vedere ragazzi e ragazze che si univano in queste manifestazioni, invece delle solite scene di studenti che aspettavano le ragazze davanti alle scuole per rimorchiarle, molestarle o stare un po’ con loro. Ma la folla, le urla e l’entusiasmo, anche se erano giustificati, mi tenevano lontano dal mio stesso gruppo di amici, per non parlare dell’ego improvvisamente gigantesco di qualche essere insignificante che s’improvvisava tribuno.
Ho sempre trovato noiosa la vita pubblica, come una serie di spettacoli teatrali brutti ai quali siamo comunque costretti a partecipare
Cinque anni dopo mi ero laureato, e sapevo che al regime di Hosni Mubarak quelle manifestazioni contro Israele erano piaciute. Le aveva sostenute e ogni tanto le aveva addirittura istigate. Mubarak voleva che le telecamere filmassero le folle infuriate mentre bruciavano la bandiera israeliana per poter mostrare quelle immagini e rivolgersi alle divinità sulle montagne di Oslo e nelle valli di Washington dicendo: “Finché io sarò qui controllerò questi mostri e gli impedirò di bruciare tutto”. Quando i cittadini hanno cominciato a scendere in piazza per protestare contro Mubarak, le forze di sicurezza erano pronte, e siccome non avevano di fronte dei mostri (non ancora) hanno fatto tutto quel che potevano per farli diventare tali: li circondavano, strappavano i vestiti alle ragazze e aggredivano sessualmente i ragazzi. Ma invece di diventare mostri, i manifestanti hanno preferito entrare in una logica perdente, abbracciando la condizione di vittime.
Ho sempre trovato noiosa la vita pubblica, come una serie di spettacoli teatrali brutti e sempre uguali ai quali siamo comunque costretti a partecipare: le elezioni, i limiti alla libertà in nome della religione e tutte le altre buffonate che tirano in ballo l’idea di nazione, c’invitano all’amore per la patria e ci spiegano come mostrarlo.
Ho conosciuto altre persone a cui tutto questo non piaceva per niente. Abbiamo deciso di fabbricarci le nostre menzogne su internet, una realtà virtuale che era fuori dal controllo delle autorità e in contrasto con il puzzo di chiuso dei nostri padri e dei loro vecchi princìpi morali.
L’Egitto stava attraversando tempi grandiosi. In tv tutti parlavano dell’arrivo della democrazia. Noi, in un angolo cieco dello sguardo dell’autorità, c’inventavamo piccoli luoghi d’incontro dove organizzare delle feste, le nostre feste, e suonare musica vietata alle radio e alle televisioni sia pubbliche sia private perché non parlava d’amore, di lunghe ciglia languorose o di tenerezza. È durante una di queste feste che Alaa Abdel Fattah mi ha proposto di creare un sito che prendesse in giro quello ufficiale del presidente. Ero incaricato di scrivere i contenuti. Facevamo giochi di questo tipo: ci chiudevamo nelle nostre bolle virtuali per sbeffeggiare il re nudo e deridere i cortigiani che continuavano a elogiare i vestiti.
Ho conosciuto la mia prima moglie in un forum online di ammiratori della musica di Mohamed Mounir. Eravamo adolescenti, non avevamo ancora diciotto anni, e in dieci anni spesso turbolenti abbiamo vissuto l’amore, il matrimonio e il divorzio, un ciclo di vita completo. Altri si sono conosciuti nei forum e nei blog dei Fratelli musulmani, dei Socialisti rivoluzionari, del club dei feticisti del piede, dei guerrieri di Bin Laden o su Fatakat, un blog per le casalinghe. Internet ci permetteva di stare lontani dai capelli eternamente neri di Mubarak. Era una nuova casa dove le persone con idee simili potevano ritrovarsi.
Il tenue ronzio delle discussioni di questi gruppi pian piano stava crescendo e i vecchi, con l’aiuto dei loro apparecchi acustici, se ne accorsero. Decisero che quel borbottio veniva da una gioventù occidentalizzata e insolente. Non prendevano sul serio quelle voci, forse non le capivano proprio. Il loro messaggio, comunque, era chiaro: “I vecchi cadaveri dovrebbero lasciare spazio a quelli nuovi”.
I giovani hanno molti tratti comuni: la passione, l’ipersensibilità e la foga
Gli zombi erano dappertutto. C’erano il generale zombi, lo sceicco zombi, il presidente zombi, l’imprenditore zombi, il partito di governo zombi, l’opposizione zombi, l’islamista moderato zombi e l’islamista radicale zombi. Quando sei giovane ogni zombi ti propone di diventare anche tu uno zombi e di lasciar perdere l’idealismo della morale e dei sogni. Non avevamo scelta, eravamo costretti a vivere con loro, parlargli, mostrarci affettuosi. A volte, per precauzione, elogiarli, diventare discreti e camminare tra loro, con le gambe rigide, le braccia tese e lo sguardo vuoto. Quando rendevamo chiaro il nostro disaccordo o rifiutavamo di ingozzarci con quelle carogne marce che sono le idee di patria e di religione, gli zombi ci rispondevano con la tortura, l’isolamento forzato o l’emarginazione.
“Dovete vivere come hanno vissuto i vostri padri”, dicevano gli zombi. Quella vita descritta tanto bene dal regista Shadi Abdel Salam nel film La mummia, del 1969: una vita da iene, con le ragazze che camminano per strada con le spalle curve in avanti e il capo abbassato senza guardare da nessuna parte, né a destra né a sinistra, mai. Devono lasciarsi rimorchiare e molestare senza lamentarsi, e quando rifiutano di sottomettersi agli zombi le accusano di usare il loro fascino per attirare i criminali e sedurli.
Quando sono cominciate le manifestazioni contro la brutalità e le torture della polizia, c’è chi s’è alzato per accusare i manifestanti di insultare le forze dell’ordine. Ma le proteste hanno continuato a crescere di dimensioni e d’intensità e alla fine hanno cominciato a chiedere la rimozione del leader degli zombi, il gran maestro della tintura per capelli. Gli zombi allora si sono riuniti per lanciare un appello ai giovani: “Cari fratelli, fate come se fosse vostro padre”.
I giovani hanno molti tratti comuni: la passione, l’ipersensibilità e la foga. L’eccesso di sensibilità può fare da carburante alla rivoluzione e far battere più forte il sangue nelle vene delle folle infuriate, ma può anche suscitare dei sentimenti di comprensione, pietà e tenerezza. È proprio per questa sensibilità che il periodo dopo la rivoluzione è stato guidato dal desiderio di riabilitare le vittime della repressione e vendicare la loro morte. Ma per questa stessa sensibilità i figli non hanno ucciso i loro padri zombi.
In molte immagini del libro fotografico di Pauline Beugnies, Génération Tahrir (Le Bec en l’Air 2016) si vedono accese conversazioni tra figlie e madri, tra giovani e vecchi. Le foto non possono trasmetterci il suono, il rumore delle discussioni, gli urli delle opinioni contrapposte. Ma ci mostrano con estrema chiarezza l’immensa autorità dei padri zombi e fino a che punto la generazione dei giovani resta prigioniera dei sentimenti.
Conoscevo molti ragazzi e ragazze che non hanno esitato a scendere in strada, bruciare pneumatici e mettersi in prima linea nella battaglia contro gli elementi criminali delle forze di polizia. Ma appena il loro telefono squillava, si appartavano in un posto tranquillo per rispondere alla madre: “Sto bene, sono lontano dagli scontri”. Dovevano pensare che la ribellione potesse esistere in una realtà parallela, lontana dalla vita familiare. Ho conosciuto attivisti che si battevano per i diritti degli omosessuali e non temevano di sollevare la questione in una società conservatrice come quella egiziana, che difendevano questi diritti nelle aule di tribunale e davanti alla polizia, ma non riuscivano a trovare il coraggio di dichiararsi omosessuali davanti ai genitori. Ho delle amiche che hanno continuato a mostrare il dito medio alla polizia con la testa alta mentre gli sparavano delle pallottole di gomma, ma che piangevano per le pressioni dei genitori e della società e per la difficoltà di immaginare un futuro che non prevedesse il matrimonio, la maternità o l’integrazione nel ciclo di produzione degli zombi.
Il generale non era particolarmente intelligente, ma gli sceicchi del Golfo lo sostenevano con entusiasmo
Questa esitazione vigliacca spiega perché la nostra generazione ha sempre cercato una via di mezzo, e alla fine è stata privata di tutto dai suoi padri. “Accogliete l’islam moderato, votate per Mohammed Morsi”, ci hanno detto i giovani islamisti. “L’islam è questione d’identità, una bella religione del giusto mezzo che può coesistere con la democrazia. La nostra identità nazionale non c’entra niente con la laicità”. E poi sono tornati i vecchi zombi, hanno detto che non c’era nessuna differenza tra i militanti dello Stato islamico e noi. Eravamo fratelli, dovevamo solo raggiungerli e combattere al loro fianco. Così i giovani democratici dell’élite urbana si sono precipitati tra le braccia di un governo civile guidato da un generale dell’esercito. Ci hanno spiegato che Al Sisi aveva occhi che irradiavano calore e affetto, e che avrebbe salvato la patria facendo diventare l’Egitto uno stato laico. Poi il generale ha proibito ogni dibattito, ci ha tolto la libertà di parola e ci ha sbattuto in galera. Quelli che sono rimasti fuori sono finiti bruciati nelle piazze o davanti agli stadi.
Il generale non era particolarmente intelligente, ma gli sceicchi del Golfo lo sostenevano con entusiasmo, loro, i rappresentanti delle divinità occidentali nella regione. Così gli sceicchi, gli zombi e il generale hanno deciso di togliere ai giovani anche lo spazio virtuale. E su internet è arrivata la censura. Oggi basta un piccolo tweet per finire in carcere. Hanno speso centinaia di milioni per trasformare la rete in un enorme centro commerciale, controllandone il contenuto con l’aiuto di squadre che invadono i social network e impongono delle nuove mode. Se emerge la storia di un nuovo caso di tortura nelle carceri egiziane, viene rapidamente sepolta sotto montagne di post e di clic sull’ultima metamorfosi del sedere di Kim Kardashian.
Qualche settimana fa ho cominciato ad avvertire un doloretto sordo al testicolo sinistro. Il medico mi ha detto che si tratta di varicocele. Mi ha consigliato di non restare in piedi troppo a lungo, di ridurre i rapporti sessuali e di astenermi dalle erezioni prolungate. Quando gli ho chiesto la causa del problema, si è limitato a rispondere, senza alzare gli occhi dal giornale: “Di solito è ereditario. Ma anche invecchiare non aiuta”.
Niente più erezioni prolungate per la nostra generazione. Siamo dispersi in tutto il mondo. Alcuni sono in carcere, altri in esilio. Altri ancora sono pronti ad annegare nel Mediterraneo, o puntano a uscire dall’inferno e raggiungere il paradiso costruendosi una scala di teste tagliate che arriva fino a dio. Quelli che sono rimasti hanno provveduto ad assicurarsi un posto tra gli zombi. Appaiono in televisione come rappresentanti dei giovani, si scattano selfie con generali zombi e sceicchi zombi, e fanno a gara per accaparrarsi le briciole lasciate cadere dagli emiri e dagli sceicchi del Golfo.
Ora è arrivato il momento di documentare, registrare e archiviare quel che è successo. E poi dobbiamo dire addio al nostro passato e alla gioventù.
Diciamo addio ai nostri dolori e ai nostri affanni. Cerchiamo, da dentro, una nuova strada e una nuova rivoluzione. Il pericolo più grande è quello di abbandonarsi alla nostalgia, alle vecchie idee e ai vecchi princìpi, di immaginare che nel passato esista un’età dell’oro, un momento di purezza da ritrovare. Il pericolo più grande è venerare un’immagine. Qualunque forma di venerazione – della rivoluzione, dei martiri o dei valori superiori delle grandi ideologie – rischia di trasformarti in uno zombi senza che tu nemmeno te ne accorga.
(Traduzione di Giuseppina Cavallo)
Questo articolo è stato pubblicato il 25 marzo 2016 a pagina 88 di Internazionale, con il titolo “Addio alla gioventù”. Compra questo numero | Abbonati