Il virus non fermerà il cambiamento in Cile
Avevamo imparato a incontrarci. Avevamo finalmente ritrovato l’abbraccio collettivo. Avevamo imparato a uscire dalla bolla del si salvi chi può per ritrovarci con il vicino di casa a protestare battendo sulle pentole dal balcone, sul pianerottolo del condominio, in coda del fornaio per comprare il pane, per strada gomito a gomito, mano nella mano, corpo accanto a corpo.
Avevamo ripreso a cantare dalle nostre finestre El derecho de vivir en paz, di Victor Jara, ed El baile de los que sobrán (il ballo di quelli che restano fuori) dei Los Prisioneros durante il coprifuoco imposto dal presidente Sebastián Piñera. Vedere come i militari sorvegliavano la città ci aveva riportato alla mente i peggiori ricordi della dittatura di Augusto Pinochet.
Ci sembrava un incubo da cui volevamo risvegliarci al più presto. Ma eravamo insieme, e protestavamo in strada. Abbiamo cambiato il nome di piazza Baquedano in piazza della Dignità. Riempivamo le nostre bombolette spray di acqua e bicarbonato per inumidire le bandane e le facce ed evitare che i gas lacrimogeni lanciati dalla polizia ci togliessero il respiro. Urlavamo in coro e saltavamo in perfetto disordine, confusi tra la folla. Le strade si riempivano di scritte e di slogan, i muri parlavano per noi. Sui nostri striscioni c’era scritto “sanità dignitosa”, “pensioni giuste”, “istruzione pubblica di qualità”. Ma anche: “Non mi basta uno striscione per tutta la rabbia che ho”, “no alla costituzione di Pinochet”, “il Cile si è risvegliato” e “finché la dignità non diventerà un’abitudine”.
Il chip della solidarietà
La polizia ci picchiava e ci accecava, ma la rabbia e la consapevolezza della precarietà erano una droga che ci spingeva a continuare a manifestare. Stavamo progettando un processo costituzionale che aveva moltissime imperfezioni e ne stavamo parlando, perché a muoverci era prima di tutto l’idea che alla fine avremmo cambiato quello strumento ereditato dalla dittatura, quel testo legale che non garantisce i diritti sociali ma li classifica come merci.
Poi è arrivata la pandemia. Niente più abbracci, mani, baci. Abbiamo tolto i passamontagna e messo le mascherine, abbiamo pensato che prenderci cura di noi stessi fosse il modo migliore per prenderci cura degli altri. Abbiamo riempito le bombolette di acqua e cloro per disinfettare i sacchi della spazzatura e ridurre i rischi per chi viene a raccoglierli.
Resteremo vigili, pronti a riprendere quello che abbiamo cominciato il 18 ottobre dell’anno scorso
Vogliamo pensare che la quarantena ci abbia colti con il chip della solidarietà ormai ben installato. Ci diciamo che abbiamo imparato qualcosa in questi mesi. Ci ripetiamo che la ribellione cominciata nell’ottobre 2019 è stata una sorta di addestramento. Perché sappiamo che a essere in pericolo sono soprattutto i più di due milioni di lavoratori informali che non possono contare sulla previdenza sociale, i migranti, i detenuti trattati come spazzatura (ci sono contagi in alcuni centri penitenziari e sappiamo di un centinaio di ragazzi arrestati durante la rivolta che non sono stati processati e sono in custodia cautelare), le persone che vivono per strada, gli anziani che prendono pensioni da miseria, i lavoratori della cultura che sono stati sempre disprezzati da un sistema che misura tutto in termini di produzione.
Abbiamo ascoltato il ministro della sanità – lo stesso che durante la protesta dei mesi scorsi ha detto che il Cile ha “il miglior sistema sanitario al mondo” e che aveva manipolato le lunghe liste di attesa degli ospedali per presentare un falso passo avanti nella sanità pubblica – annunciare che il governo affitterà hotel e centri congressi del sistema privato per affrontare la crisi e dire che forse il virus potrebbe mutare e diventare “una brava persona”. Una presa in giro che fa aumentare la rabbia.
Vedere il ministero del lavoro sostenere che in casi di forza maggiore (come la quarantena decretata in alcune zone del paese) gli imprenditori non saranno obbligati a pagare i salari dei loro lavoratori è un altro schiaffo. Vedere che il presidente annuncia un bonus di soli cinquantotto dollari per le famiglie più in difficoltà e il rinvio dei debiti per i servizi di base, ma senza cancellare quei debiti o sovvenzionare i pagamenti e senza garantire un reddito dignitoso per chi resterà senza lavoro o vedrà diminuire le sue entrate, è un’ulteriore prova di un sistema indolente, che dà la priorità agli affari sulla solidarietà.
È questo il ballo di quelli che restano fuori, nella sua versione più crudele. Piazza della Dignità è stata recintata dai militari nei primi giorni del coprifuoco, i graffiti sono stati cancellati e sul cemento resta solo un’enorme scritta che risale alla manifestazione dell’8 marzo: “storiche”. Abbiamo la sensazione (o il desiderio, o la fantasia) che appena sarà passata l’emergenza sanitaria torneremo più forti di prima. Saremo ancora più precari, storditi e sofferenti. Forse ci costerà riabbracciarci. Ma resteremo vigili, pronti a riprendere quello che abbiamo cominciato il 18 ottobre dell’anno scorso.
(Traduzione di Francesca Rossetti)
Questo articolo è uscito sulla Revista de la Universidad de México.