Una lotta comune contro la violenza maschilista
C’è un’altra donna che accusa Donald Trump di averla stuprata. Si chiama Elizabeth Jean Carroll. È una giornalista e ha un libro in uscita. Lo stupro risalirebbe a 23 anni fa. Sono tanti anni. E, come detto, ha un libro in uscita. Così, una delle prime cose che la giornalista ha dovuto spiegare è perché abbia fatto passare tutto questo tempo. Come se fosse questo il problema più grande: il tempo.
È vero: è difficile dire cosa sia successo. Trump ha respinto ogni accusa. Solo un tribunale potrà stabilire una verità giudiziaria. Prima di allora, garantismo e rispetto per chi si dice vittima sono il cardine di ogni riflessione. E poi, in mancanza di certezze, ciascuno rischia di mettere in scena solo il proprio pregiudizio, cosa che purtroppo succede spesso. Invece, ciò su cui intanto si può dire qualcosa, anche se alla fine si dimostrasse la falsità di quella vicenda, è il modo in cui questo genere di storie è accolto nel nostro paese, e il tenore dei commenti, l’ironia cameratesca, il cinico accorciare ogni pensiero nel dire che quella donna se la sarà cercata, che forse mente o avrà un secondo fine, altrimenti avrebbe denunciato tutto all’epoca dei fatti. Il punto, insomma, è che di solito la versione fornita da una donna che dice di essere stata vittima non è mai davvero ascoltata, ma nel frattempo già si emettono giudizi, si ammicca riferendosi a generici sospetti, s’intorbidano acque e sensibilità collettiva, e così si rende la vittima nuovamente vittima.
Questo atteggiamento emerge come segno di un riflesso culturale in apparenza incoercibile. Basta rivedere Processo per stupro, anche solo i primi minuti, per essere inghiottiti da un incubo ingrassato dal paternalismo che è ovunque, dalla volgarità, da certe donne che, intervistate, diventano carnefici difendendo l’uomo prima di ogni cosa. È cronaca di quarant’anni fa, ma sembra cronaca di oggi.
L’ansia di essere uguali agli altri
Sono trascorsi quarant’anni da quel 1979 in cui fu trasmesso Processo per stupro e molti uomini e donne di oggi sembrano ancora quelli immortalati nel documentario. I loro comportamenti rispondono tuttora a un’ansia di appartenenza a una comunità che riconosce – consapevolmente o meno – maschilismo e paternalismo come valori condivisi. Oggi come ieri, di fronte alla denuncia di una violenza, l’oggetto principale della discussione pubblica non è mai davvero la violenza né la responsabilità dello stupratore. Si finisce invece per annegare in un mare di allusioni e s’insinua ovunque il fastidio per chi afferma il diritto delle donne a scegliere cosa fare del proprio corpo. Infine, alla sbarra ci finisce la vittima, imputata per la violenza subita.
Che siamo ancora a questo punto ce lo ha confermato di recente il caso di Asia Argento. Anche a lei è stato rinfacciato di non aver denunciato subito. Le sue parole sono state accolte con scetticismo pregiudiziale e con le solite allusioni. La sua versione dei fatti non è mai stata davvero ascoltata. Si è perfino sostenuto che avrebbe potuto dire di no a quell’uomo, sebbene lei affermasse, inascoltata, di essere stata violentata. Gli stessi toni e argomenti sono stati usati contro di lei da uomini e donne di ogni estrazione sociale e culturale all’insegna di quella larvata necessità di confermare la propria appartenenza a una comunità patriarcale.
Pier Paolo Pasolini sosteneva che “l’ansia del consumo è un’ansia di obbedienza a un ordine non pronunciato”. Si riferiva, tra l’altro, ai processi di omologazione culturale, al potere e a un cambiamento antropologico che stava avvenendo allora nel paese. “Ognuno in Italia”, scriveva, “sente l’ansia, degradante, di essere uguale agli altri nel consumare, nell’essere felice, nell’essere libero, perché questo è l’ordine che egli ha inconsciamente ricevuto”, così che “mai la diversità è stata una colpa così spaventosa come in questo periodo di tolleranza”. Ciò che qui interessa è il meccanismo che Pasolini cercava di far emergere, perché interviene ancora nel modo in cui oggi si definiscono anche i ruoli nella società.
Una resa
Le donne e gli uomini che neppure hanno ascoltato la versione dei fatti di Asia Argento, così ansiosi di affermare che l’attrice avrebbe potuto dire no al suo aggressore, non sono così diversi da chi all’inizio di Processo per stupro alludeva assurdamente a presunte responsabilità delle donne. Tutti questi uomini e queste donne – ieri e oggi nello stesso modo – hanno affermato la propria resa di fronte a un potere immutabilmente patriarcale che quindi riconosce nel ruolo del maschio la propria regola, alla quale ciascuno deve sottomettersi.
Quella resa, nel caso di Asia Argento, si è concretizzata nella classica immagine del divano del produttore. Quell’immagine per di più è stata brandita come se fosse una verità immodificabile: così va il mondo, perché mai lei dovrebbe essere diversa da tutti gli altri? Il suo dirsi diversa non può che essere un’ipocrisia. Insomma, agli occhi di quegli uomini e di quelle donne non appare immaginabile uno stare al mondo che non sia quello organizzato intorno a un potere che fa del paternalismo e del maschilismo armi potenti e pervasive, che agiscono silenziose su ogni terreno, e non solo sul corpo della donna.
L’irrisione della battaglia per l’ambiente portata avanti dalla giovane svedese Greta Thunberg risponde, a ben vedere, allo stesso ordine non pronunciato. In questo caso il corpo è quello di un’adolescente. Lo stesso è successo sul corpo di un ragazzino – un maschio, insomma – quello di Simone di Torre Maura, a Roma, il quale, da solo con i suoi 15 anni, ha affrontato alcuni rappresentanti del partito di estrema destra CasaPound, arrivati nel suo quartiere per contestare il trasferimento di un gruppo di settanta rom in un centro di accoglienza.
Le due storie, quella di Thunberg e quella di Simone, hanno in comune l’irruzione sulla scena di una forma di paternalismo per lo più sogghignante, che ha immediatamente provato a sminuirli, e poi è stato tutto un darsi di gomito sghignazzando pubblicamente anche da parte di intellettuali, giornalisti, scrittori d’ogni provenienza culturale e politica, uomini e donne che hanno fatto esercizio di cinismo e strafottenza più che altro per affermare se stessi, o poco più. E però molte delle loro parole sono apparse pericolosamente simili alla mano che uno dei fascisti aveva appoggiato sul volto di Simone perché finalmente ascoltasse parole che si autoaffermavano come frutto della saggezza di un adulto, e invece era soltanto paternalismo, anche quello.
Lo stesso discorso si può ripetere, infine, anche a proposito di quanto si è letto in giro su Carola Rackete, la comandante della SeaWatch 3 che, per la sua attività umanitaria, è stata oggetto di pesanti insulti a sfondo sessuale. Di recente era successo anche a Casal Bruciato, sempre a Roma, a una rom alla quale era stato assegnato un alloggio dal comune. Un militante di estrema destra le aveva gridato: “Ti stupro”. L’insulto, la minaccia di stupro, la violenza sono evidentemente ancora un argomento dialettico per coloro ai quali certe circostanze – una donna al comando di una nave che salva migranti, una donna rom alla quale è assegnato un alloggio popolare – devono apparire come cortocircuiti inafferrabili che rischiano di scalfire anche simbolicamente la costruzione del potere patriarcale.
La questione, insomma, non si limita ai rapporti tra uomini e donne, ma ha a che fare con il potere e la soggezione, quasi sempre inavvertita, a quel potere della società. Non ci sono solo il bruto e la vittima sulla scena ma c’è, oggi come ieri, un bel pezzo di società ancora arresa a un riflesso culturale che sembra invincibile in quanto forza di conservazione di un potere da sempre declinato al maschile.
Il problema insomma riguarda tutti e non solo chi per qualsiasi ragione – l’essere donne, l’orientamento sessuale, quello ideologico, l’essere stranieri, la povertà – è in grado di aprire contraddizioni in una società così virilizzata che infatti reagisce dando risposte altrettanto virilizzate. Non a caso, quel potere considera la povertà un problema di ordine pubblico, così come considerava la violenza sulla donna un’offesa alla morale e non alla persona.
Se è così, si dovrebbe tornare a considerare tutto questo non solo come un insieme di questioni da affrontare separatamente, ma come un’unica grande questione politica e culturale, perfino ideologica. Altrimenti, saranno sempre più numerose le persone che, piuttosto che mettere in discussione il potere e gli abusi di un potere che appare sempre più decadente e per questo s’incattivisce, continueranno ad adeguarsi e a mettere in discussione le vittime. Perché, com’è noto, alle vittime non si perdona nulla, soprattutto il fatto di essere vittime.
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