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La crisi è lo specchio di una classe dirigente inadeguata

Il discorso del presidente del consiglio in senato, tra Matteo Salvini e Luigi Di Maio, il 20 agosto 2019. (Ettore Ferrari, Ansa)

Si sta per entrare in una giornata impensabile in qualsiasi altro momento della storia repubblicana, essendo ancora ogni ipotesi aperta, perfino le più improbabili, ha osservato Enrico Mentana cominciando la sua maratona televisiva sulla crisi di governo. Nei giorni scorsi, anche giornali e tv avevano ampiamente battuto lo stesso tasto. Insomma, siamo di fronte a una delle crisi politiche più bizzarre di sempre – la più pazza del mondo, si è detto, ed è vero. Eppure, oltre ogni giravolta e più ancora del rimangiarsi oggi quel che era stato detto ieri, in questa confusione estrema c’è una cosa che è difficile da nascondere: se questa è la crisi più pazza del mondo, a guidarla, o quanto meno a provarci, c’è una classe dirigente tra le più inadeguate che questo paese abbia mai conosciuto.

Nel corso di questa crisi, i capi dei partiti non hanno mostrato pudore nel cambiare idea su tutto o quasi quel che avevano sostenuto nei mesi scorsi. Ineffabilmente, e di corsa, si sono ingoiati anni di insulti, di proclami e di pensosissime riflessioni destinate evidentemente anch’esse a durare il tempo di un battito di ciglia, come la coerenza. Tutto ciò, senza neppure dare conto delle ragioni di quel mutamento o almeno di un travaglio interiore. Per questo, ogni cosa è apparsa senz’altro ridicola.

D’altra parte, non può che essere ridicolo il repentino cambiare idea persino su se stessi senza esser capaci di dare spiegazioni, se non quella, anch’essa ridicola, che a richiedere questo sacrificio sia addirittura la salvezza del paese, mentre ciò che appare evidente è soltanto la fretta di approfittare del momento con spregiudicatezza.

In questo chiasso a mancare è stata la politica. E mancando la politica si aprono le porte ad altro

Il dibattito nel quale il presidente del consiglio Giuseppe Conte ha comunicato al senato la fine del proprio governo ha confermato tutto questo. Intanto, Nicola Zingaretti dichiarava che “qualsiasi nuova fase politica non può non partire dal riconoscimento dei limiti strutturali di quanto avvenuto in questi mesi”. Lo ha detto recuperando in parte anche un linguaggio vagamente democristiano. E lo ha fatto dall’esterno del senato, mentre in aula andava in scena il dibattito. Anche questa è una stranezza, come tante se ne sono viste nel corso di questa crisi.

In aula, invece, si è potuto ascoltare Conte attaccare Matteo Salvini, seduto proprio accanto a lui, sui banchi riservati al governo, e definito come un politico con “grave carenza di cultura costituzionale” e dunque sostanzialmente pericoloso, come se non si trattasse del ministro dell’interno dello stesso governo del quale Conte è stato presidente. Poi si è ascoltato Salvini – quello stesso Salvini che aveva aperto la crisi annunciando la sfiducia a Conte, rimanendo però saldamente sulla sua poltrona al Viminale, come anche gli altri ministri leghisti – replicare duramente al presidente del consiglio, annunciando il voto come unica soluzione, salvo poi ammettere d’esser comunque disponibile a eventuali soluzioni diverse.

Si è potuto ascoltare Matteo Renzi, redivivo grazie a Salvini, tanto da pretendere di essere lui a dare le carte nel suo partito, scaricando sulla crisi del governo l’eterna incompiutezza del Pd. Un partito che sembra votarsi alle divisioni fino al ridicolo, perfino nelle vicende politiche dalle quali potrebbe uscire vincitore. Si è potuto ascoltare tutto questo ed altro, in un tripudio di attacchi personali, allusioni, ammiccamenti, in una esaltazione della tattica senza strategia e senza idee, in una assoluta, infinita improvvisazione.

In questo chiasso – apparso come una gigantesca questione personale e non una crisi di governo – a mancare è stata la politica. Ed è proprio questo ciò che inquieta, perché mancando la politica – e non da oggi, per la verità – si aprono le porte ad altro. Colpiscono, per esempio, l’attitudine integralista e la spregiudicatezza del tutto sganciate da ogni strategia con cui certi leader politici hanno gettato alcune questioni serissime sul tappeto e poi le hanno cavalcate come se si trattasse di un mero argomento tattico o, peggio, come se potesse essere niente altro che merce di scambio sulla via delle elezioni anticipate, senza preoccuparsi delle conseguenze, sollecitando infine masse di seguaci a fare lo stesso. Poco male quando in ballo c’è qualche like sui social. Molto male quando si pretende di gestire una crisi di governo. Malissimo quando c’è di mezzo anche il corretto funzionamento della democrazia parlamentare.

Molta tattica pochi princìpi
Fa molta, moltissima impressione osservare, per esempio, come un intero mondo politico si dichiari disposto a stravolgere princìpi e meccanismi indispensabili al funzionamento della nostra democrazia parlamentare – oggi il numero dei parlamentari, ieri il vincolo di mandato, l’altro ieri perfino il rapporto di fiducia tra camere e governo – per garantire la propria sopravvivenza politica. Di questo, infatti, e soltanto di questo, in fin dei conti oggi si tratta: della sopravvivenza di alcuni, pochi, leader. E a cascata di quella dei tanti gregari disposti a ogni cosa pur di restare lì, accanto al capo, ad applaudire in favore di telecamera, senza mai mostrare dubbi, poiché avere dubbi oramai non si può più.

Dovrebbe essere piuttosto evidente come, propaganda a parte, la rappresentanza del popolo sia il cardine della democrazia parlamentare. Dovrebbe essere altrettanto evidente che lo stesso valga anche a proposito della consistenza numerica di quella rappresentanza. Meno parlamentari significa, nei fatti, una maggiore possibilità di controllo degli stessi parlamentari da parte delle segreterie dei partiti e una minore possibilità che si possa manifestare una dissidenza interna. Il che non è mai una circostanza positiva. Poi, certo, è evidente che sia del tutto lecito avere su questo idee diverse ma, come detto, a fare impressione, prima ancora del contenuto delle proposte, è stata soprattutto la spregiudicatezza con la quale certi argomenti sono stati gettati sul tavolo, quasi come argomento retorico o tattico e poco più.

Un esempio è quello del vincolo di mandato. Com’è noto, nel nostro ordinamento il parlamentare rappresenta l’intera nazione e vota secondo le proprie convinzioni. Non c’è insomma possibilità che egli sia obbligato a votare in un certo modo, nemmeno se a chiederglielo è il proprio leader politico. L’introduzione del vincolo di mandato sovvertirebbe questo meccanismo e trasformerebbe ciascun parlamentare in un mero esecutore della volontà delle segreterie dei partiti.

Qualcosa di simile era accaduto anche quando si mise in discussione – sebbene in modo surrettizio – il rapporto di fiducia tra camere e governo, ossia quel meccanismo che consente al governo di stare legittimamente in carica. Accadde quando si cominciarono a indicare cambi di maggioranza in corso di legislatura con il nome di “ribaltoni”.

Queste pratiche sono la norma nelle democrazie parlamentari nelle quali il popolo elegge i parlamentari, che poi danno la fiducia a un governo. Quel governo resterà in carica sino a quando ci sarà un rapporto di fiducia con il parlamento. Se venisse meno, le camere potranno affidare il governo ad altri. Anche in questo caso, si potrà pensare tutto il male possibile di questo genere di pratiche, ma questa è la fisiologia delle democrazie parlamentari.

La politica del nemico
Com’è evidente, si tratta di temi collegati tra di loro e, anzi, si tratta di più facce della stessa medaglia. Percorrendo quelle strade senza un chiaro disegno politico, il rischio che si corre è quello di fare danno, e il danno può andare dalla compressione della rappresentanza – e quindi della volontà popolare – fino alla trasformazione di questa rappresentanza in fedeltà al leader. Se, poi, la ragione di queste riforme è la necessità di una maggiore capacità decisionale della maggioranza politica che esprime l’esecutivo – poiché si lamentano le lentezze fisiologiche in una democrazia parlamentare –, ebbene il sospetto è che una classe politica debole abbia cercato, in questi anni, di scaricare sulle istituzioni la propria insipienza.

D’altra parte, si tratta di una classe politica che in questi ultimi 25 anni si è formata desertificando la politica, riducendola a un infinito, sterile talk show, utile solo alla costruzione di un nemico, perché ciascuno, dopo la fine delle idee, ha ritenuto di poter costruire la propria identità politica non su nuove idee, bensì contro un nemico, rendendolo necessario per la propria stessa esistenza. Così, chi si è opposto a Renzi è stati definito “gufo”, chi contesta Giorgia Meloni è addirittura “anti italiano”, Matteo Salvini attacca gli avversari indicandoli come “zecche”, Silvio Berlusconi dà direttamente del “coglione” all’avversario, mentre Beppe Grillo passa dal “vaffanculo” ai “nuovi barbari”.

Questo rapido – e assolutamente lacunoso – catalogo non racconta solo volgarità e mancanza di idee, e non indica neppure soltanto la necessità di crearsi un nemico per crearsi un’identità. Da questo catalogo emerge infatti un rischio ancora più grande: quello che – come già si intravede nelle parole di Giorgia Meloni e in certi atteggiamenti di Matteo Salvini – si passi infine all’accusa di disfattismo.

Adriano Prosperi scriveva su Repubblica che “il disfattismo fu per il regime fascista un fantasma necessario, continuamente evocato, il responsabile a cui imputare le difficoltà e gli insuccessi. La voce del Capo si alzava non tanto per denunziare le trame dei disfattisti di professione, quel pugno di antifascisti ‘soli, solissimi’, come ha scritto Vittorio Foa (…) No: il disfattismo era per il regime il nemico per definizione, l’unico nemico che potesse minacciare un sistema in cui il Capo doveva realizzare l’ideale supremo della democrazia organica, della fusione mistica del popolo nel leader”. E, insomma, almeno a livello simbolico, quello che si corre è un rischio paragonabile a quello che si correrebbe nella pratica, depotenziando certi pilastri della democrazia parlamentare, perché si metterebbe in crisi il patto sociale che sta alla base dell’esistenza stessa di una società, così che alla fine al legame sociale si sostituisce il rapporto personale, e alla comunità il clan.

Non siamo fortunatamente a questo punto. Eppure, il dibattito andato in scena in senato – con la prevalenza della tattica sulla strategia e il sovrapporsi delle questioni personali a quelle politiche – ci dice che il rischio è che quella sia la strada intrapresa. E che, insomma, la vera crisi non sia tanto la crisi del governo in carica quanto invece la crisi di una intera classe dirigente. Lo stesso ci racconta tutto quello che è successo in questi ultimi giorni, ma soprattutto la storia di questi ultimi 25 anni. La soluzione, banalmente, sarebbe nel ripudio della demagogia e del populismo – malattia comune un po’ a tutti i partiti – e nel ritorno alla politica e alle idee. Considerate le premesse, non sarà facile.

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