L’aiuto al suicidio non è sempre punibile. Lo ha stabilito la corte costituzionale secondo la quale l’assistenza non è punibile come istigazione. Perché ciò accada devono ricorrere alcune circostanze: si potrà aiutare una persona a morire se ha una malattia irreversibile che le provoca sofferenze intollerabili, è tenuta in vita da trattamenti medici di sostegno e ha scelto autonomamente e liberamente di porre fine alla propria vita. Inoltre, la consulta, come già aveva fatto lo scorso anno, è tornata a sollecitare un intervento del legislatore, definendolo indispensabile. Nel frattempo, per evitare abusi ai danni di persone vulnerabili ha sottoposto la non punibilità “al rispetto delle modalità previste dalla normativa sul consenso informato, sulle cure palliative e sulla sedazione profonda continua”.
La questione costituzionale era stata sollevata al termine del processo al radicale Marco Cappato, che aveva accompagnato Fabiano Antoniani – conosciuto come Dj Fabo – in Svizzera, dove l’aiuto al suicidio è possibile. Ma, al di là del destino personale di Cappato, questa vicenda avrà conseguenze importanti sul piano generale. E non solo perché da oggi i giudici potranno operare una valutazione sulla condotta dell’imputato che non sarà automaticamente ricondotta all’istigazione, ma soprattutto perché questa vicenda pone una gigantesca questione di sistema. Non a caso, Cappato ha detto giustamente che si tratta di “una vittoria della disobbedienza civile, mentre i partiti giravano la testa dall’altra parte”.
Ancora una volta, sul terreno dei diritti il parlamento è stato incapace di assumere una responsabilità politica e prendere una decisione, costringendo altri – in questo caso la consulta, in altri casi la magistratura ordinaria e la corte di cassazione – a intervenire per colmare una lacuna dell’ordinamento giuridico. Bene, si dirà. Ma la via giudiziaria ai diritti è un fallimento per la politica, il fallimento più grande.
Parlamento schiacciato
Non è la prima volta che ci si trova costretti a constatarlo. E, anzi, si direbbe che questa immobilità della politica sia una costante dell’ultimo quarto di secolo. Forse, è perfino un elemento fondante della seconda repubblica. Lo è almeno da quando, ben prima che nascesse il Partito democratico, Ds e Margherita facevano melina nelle commissioni parlamentari se c’era da discutere di diritti civili, quasi sabotando ogni iniziativa, anche le proprie, finendo addirittura per togliere lavoro alle opposizioni di destra.
Ciò poteva accadere perché, con partiti sempre meno legati alle ideologie e sempre più legati al carisma dei leader, l’elaborazione ideale si andava facendo meno necessaria, sostituita dalla capacità di tessere relazioni personali. Ma anche perché il ruolo politico delle camere stava da tempo declinando insieme al loro ruolo come legislatore. Sono questi gli anni nei quali il parlamento sempre più spesso si trova schiacciato tra un governo che produce norme giuridiche per mezzo dei decreti e una magistratura che è chiamata a riempire le lacune dell’ordinamento interpretando le leggi esistenti e, dunque, assumendo di fatto un ruolo da quasi-legislatore.
Poiché la società e la scienza si evolvono senza attendere i tempi della politica, la magistratura viene chiamata a intervenire soprattutto sul terreno dei diritti, tra i più carenti in quanto a legislazione. E questo perché, trattandosi di una materia eminentemente politica e divisiva, i partiti della seconda repubblica – pur con alcune importanti eccezioni come dimostrano i recenti interventi su testamento biologico e unioni civili – se ne sono sempre tenuti lontani. Ma, contrariamente a quanto è concesso alla politica, la magistratura quando è invocata non può esimersi dal dare risposte. Quelle risposte sono puntualmente arrivate, e quasi sempre nel segno di un avanzamento consentito dal fatto che molti di quei princìpi erano già presenti nella costituzione, mancando però una legge che gli desse applicazione.
Così, in questi anni, la frequenza delle pronunce dei giudici è stata impressionante. Si va dal caso di Pier Giorgio Welby a quello di Eluana Englaro, ai numerosi interventi sul tema delle coppie di fatto, fino a quelli sulla legge sulla fecondazione assistita. Ma un elenco esaustivo sarebbe lunghissimo. Nel vuoto politico, insomma, si è fatta largo la via giudiziaria ai diritti. Come detto, è però una strada che, per quanto capace di offrire soluzioni, resta piuttosto pericolosa da battere.
La magistratura infatti decide su singoli casi. Dunque, una sentenza che riconosca un diritto a chi ha invocato un giudice non è immediatamente applicabile in via generale. Inoltre, è sempre possibile che giudici diversi si pronuncino in modo diverso su casi simili. Poi, certo, una sentenza della cassazione – interpellata proprio per garantire l’applicazione uniforme delle norme – cambia un po’ la prospettiva ma non in senso assoluto e non cancella del tutto la possibilità che un giudice si possa esprimere diversamente dalla pronuncia della suprema corte. Non sempre, infine, un pronunciamento della magistratura è in grado di dare risposte del tutto esaustive. Può capitare, ad esempio, quando il vuoto legislativo non si può colmare del tutto neppure in via di interpretazione.
Più in generale, però, la pronuncia di un giudice non evita i danni prodotti dalla mancanza di iniziativa politica anche su piani diversi da quello strettamente giuridico. Ciò che accade sul piano simbolico, per dire, spesso ha conseguenze persino più pesanti. Grave, e anzi gravissimo, è infatti il danno che la politica provoca attraendo su se stessa sempre più discredito a causa della propria inerzia. E altrettanto grave è la lacerazione tra politica e cittadini che in questi anni si è prodotta e poi accentuata anche a causa di questo discredito. Come ci raccontano le cronache di questi mesi, si tratta di un danno prodotto da almeno un paio di decenni di insipienza e al quale è ora davvero difficile porre rimedio.
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