La vera posta in gioco nel referendum costituzionale
Ci sarebbe anche un referendum costituzionale del quale occuparsi in questi giorni d’agosto. Tra qualche settimana – durante l’election day del 20 e 21 settembre – gli italiani dovranno decidere se confermare o respingere il taglio di deputati (dagli attuali 630 a 400) e senatori (da 315 a 200) votato dal parlamento nell’ottobre del 2019 dopo un lungo e non sempre lineare iter politico e legislativo. Eppure, nella distrazione collettiva di questa strana estate, se ne sta discutendo – quando se ne discute – soltanto a rimorchio di altre questioni.
Ci si indigna per il bonus covid chiesto da alcuni parlamentari, e va bene. Ma inquietano certi toni che trascinano ogni cosa in un baratro di rabbia e recriminazioni, alimentando la recrudescenza di un clima antipolitico. E tutto ciò cammina in parallelo con il disinteresse che sembra accompagnare il paese verso il voto di settembre, quando potrebbe essere ridimensionato il parlamento non solo nei numeri ma anche nella sua capacità di rappresentare la volontà popolare.
Se infatti il taglio dei parlamentari fosse confermato, in Italia si passerebbe dai circa 96mila abitanti per deputato a circa 151mila per deputato, e il nostro paese finirebbe all’ultimo posto in Europa per quanto riguarda la rappresentatività della camera bassa, che in Italia è la camera dei deputati.
In mancanza di una riforma complessiva della rappresentanza, o almeno dei correttivi al taglio che facevano parte dell’accordo di governo tra M5S e Pd – che però, a partire dalla nuova legge elettorale, sono rimasti sinora lettera morta – il risultato sarebbe quello di sterilizzare in parte la capacità del parlamento di rappresentare il popolo. E il parlamento è l’unico organo dello stato che il popolo lo rappresenta direttamente poiché dal popolo è eletto. Se questo sia un bene o un male è uno dei temi sui quali si dovrebbe riflettere adesso. Ma ciò non accade.
La vittoria dei partiti
Così non si può non notare che, di fronte a una evidente e ormai quasi strutturale incapacità della politica di dare risposte alle questioni aperte nel paese, quella stessa politica invece di migliorare se stessa – per esempio scegliendo meglio chi mandare in parlamento – decida di smantellare parzialmente il parlamento stesso.
Ciò che insomma succede è che, di fronte a una propria carenza, la politica reagisce diminuendo la capacità dell’istituzione che rappresenta il popolo, garantendosi di fatto ancor più potere di oggi. E ciò accade paradossalmente sull’onda di un sentimento antipolitico che in molti – inclusa una parte della stampa più influente – hanno alimentato in questi ultimi due decenni. Così, se il taglio fosse confermato dal voto popolare, sarebbe davvero un successo per quella che in altri tempi si sarebbe detta partitocrazia.
Tutto ciò non accade adesso e dal nulla, ma trova la sua radice all’inizio degli anni novanta. Fu allora che i grandi partiti popolari vennero spazzati via, alcuni dalle inchieste sulla corruzione e altri invece dalla storia. Si affermò allora un genere di organizzazione politica più liquida e legata alla figura del leader, per la quale la comunicazione ha avuto un ruolo fondamentale e che alle idee ha sostituito l’appartenenza a vere e proprie consorterie. È lì, nella chiamata diretta del leader al popolo, senza più la mediazione dei partiti, che sta l’origine dell’ondata populista che negli anni successivi si è andata ingrossando. Non a caso, negli stessi anni la democrazia parlamentare venne di fatto “presidenzializzata”, anche se la costituzione non era cambiata.
Tutto ciò, insieme a molti altri elementi come la progressiva devoluzione di porzioni della propria funzione verso l’Europa o verso le regioni, contribuì alla costante erosione del ruolo del parlamento come legislatore e come luogo della politica. Lo dimostrano il ricorso sempre più massiccio ai decreti da parte del governo e l’intervento, anch’esso sempre più frequente, della magistratura come legislatore indiretto attraverso l’interpretazione della legge. La via giudiziaria ai diritti civili rientra, in questa prospettiva, nel grande racconto del malfunzionamento della politica; malfunzionamento della politica, appunto, e non del parlamento, che però alla fine è stato colpito da questo processo.
Il potere delle leadership è politicamente enorme. Diminuendo il numero dei parlamentari quel potere crescerebbe ancor di più
Se è così, allora a preoccupare sono anche alcune conseguenze di natura strettamente politica che un eventuale taglio dei parlamentari potrebbe avere. Già adesso, per esempio, il potere delle leadership è politicamente enorme. E, al di là della scarsa capacità di autonomia intellettuale che è da tempo molto evidente nella pancia dei partiti, diminuendo il numero dei parlamentari quel potere crescerebbe ancor di più. Si ridurrebbe così a poca cosa la libertà dei singoli parlamentari, rendendo anche più difficile l’affermazione di una dissidenza interna e di un pensiero non allineato.
In questo modo si finirebbe sempre più per trasferire indebitamente sul parlamento un rapporto di forza che, pur legittimo all’interno dei singoli partiti, non lo è più quando riguarda soggetti, come i parlamentari, che dovrebbero rappresentare ciascuno l’intero paese. In termini costituzionali significa che c’è il rischio di realizzare nella sostanza, o quanto meno si rischia di rendere più facile, una elusione del divieto del vincolo di mandato. Un risultato che probabilmente non dispiacerebbe ai leader politici che, in forme diverse, lo hanno cercato in passato, da Berlusconi a Renzi fino a Grillo.
In termini assoluti, ciò potrebbe finire per incidere negativamente perfino sull’equilibrio, già manomesso da tempo, tra i poteri dello stato. Basti pensare al rapporto tra governo e parlamento che, come prevede la costituzione, si regge sulla fiducia che il secondo accorda al primo. In futuro i parlamentari potrebbero trovarsi a dover rispondere con sempre meno possibilità di dissentire agli ordini del presidente del consiglio, che di norma è anche il capo del partito di maggioranza. Si finirebbe insomma per consolidare un parziale rovesciamento di quel rapporto, pericolosamente già in corso da tempo.
Non sembra esserci una contropartita sufficiente per giustificare tutto questo. Non c’è dal punto di vista funzionale e neanche da quello del risparmio economico. Il risparmio, infatti, sarebbe risibile sia in termini assoluti sia in rapporto a ciò che si rischia di compromettere sul piano politico e istituzionale.
Quel che resta sul tappeto, alla fine, è il tentativo di conseguire un risultato squisitamente politico da parte del Movimento 5 stelle, che ha voluto quel taglio come provvedimento da sbandierare. E quel risultato si manifesta sin dall’origine come un segnale esemplare che si vorrebbe dare alla politica e che però colpisce ancora una volta soprattutto il parlamento. Questo anche perché restano ancora aperte alcune questioni, come la nuova legge elettorale che avrebbe dovuto accompagnare il taglio dei parlamentari o il rischio piuttosto grave che la diminuzione di un terzo del numero degli eletti lasci alcune aree del territorio nazionale prive di rappresentanza parlamentare.
Nei primi tre passaggi alle camere il Partito democratico si era espresso contro il taglio. Poi, al quarto e ultimo voto parlamentare, ha dato il via libera in cambio della promessa strappata al M5s dell’introduzione di una serie di correttivi per mitigare le distorsioni causate dalla riforma. Ma di tutto ciò non si è mai avuta traccia nella realtà, nonostante il forzato ammorbidimento del Pd in questi mesi su molte questioni care ai cinquestelle.
Si è arrivati così al referendum, con un M5s pronto a festeggiare e un Pd che, alla ormai conclamata incapacità di elaborazione politica, ha mostrato anche una punta di ingenuità sconcertante. Non è un caso se anche Goffredo Bettini, uno dei sostenitori dell’accordo col M5s all’interno del Pd, ha dovuto ammettere che, stando così le cose, il taglio dei parlamentari “può essere perfino pericoloso per il regime democratico”.
Ecco, sarebbe stato meglio pensarci prima.