L’indignazione perenne non produce alcun cambiamento
Piace assai l’indignazione, di questi tempi. Per molti è diventata strumento di partecipazione abituale. E poco importa se si finisce in fretta per scadere su toni spicci, sprezzanti, classisti, a volte apertamente violenti. Del resto, è quasi inevitabile che sia così: chi si indigna a tempo pieno si è già proclamato moralmente altrove, superando ogni obiezione semplicemente galleggiandoci sopra.
Accade un po’ ovunque. I talk show televisivi da trent’anni forniscono al pubblico lo spettacolo di volti che si parlano addosso, gridano, strabuzzano gli occhi, fanno versi senza dir nulla. La carta stampata da altrettanti anni si è intestata una battaglia nella quale il tifo e un’inquietante aspirazione moralizzatrice hanno divorato la cronaca. Sui social network va in scena un nutrito repertorio di indignazioni che non di rado assume toni da giustizia sommaria. Di ogni cosa non si discute ma ci si scandalizza. Lo si fa con le stesse parole, gli stessi toni, la stessa aggressività quasi caricaturale. Tutto si mescola assumendo contorni indistinti e nulla pare importante davvero. Poi si passa in fretta a un altro argomento senza che le parole diano frutto alcuno. Il dibattito pubblico pare allora un gigantesco esercizio di solipsismo radicale.
“Bisogna trovare le parole giuste. Le parole sono importanti”, diceva Nanni Moretti in Palombella rossa. Purtroppo, non sembra che siano in molti a fare lo sforzo di cura per sceglierle. Le parole tradiscono le ragioni ma anche le sofferenze dalle quali nascono. L’indignato a tempo pieno lo nega, credendo che quello che non funziona sia soprattutto negli altri. Quello che pensa il prossimo, anzi, non interessa. Interessa solo affermare se stessi, rafforzando così un ripiegamento identitario radicale nel quale l’identità smette di essere anche una circostanza sociale e ideale, e coincide sempre di più col confine del proprio corpo.
Contro gli altri
Questa deriva identitaria e individualista si è radicata a partire dagli anni novanta del novecento. Un decennio nel quale, per molte ragioni, inizia a declinare rovinosamente l’idea che le questioni dell’esistenza si possano affrontare socializzandole o comunque anche all’interno di un orizzonte collettivo. A raccontarcelo c’è, tra l’altro, il bipolarismo vacuo e collerico in cui siamo immersi da allora.
In questa condizione, l’identità di ciascuno si è andata costruendo sempre più contro gli altri e non più insieme agli altri. E in un paese che si è ridotto a essere un insieme di individui-individualisti che combattono rabbiosamente per affermare la propria identità contro il prossimo senza più mediazione politica, ideale e sociale, lo sdegno è diventato la risposta più a portata di mano, oltre che la meno impegnativa e rischiosa poiché non implica assunzione di responsabilità. Questa risposta si è infine ristrutturata come una sanzione che ha per oggetto non più il contenuto del discorso altrui ma direttamente l’identità di chi si ha di fronte, e dunque l’esser fatti in un certo modo. Pare l’anticamera di qualcosa di molto inquietante, eppure il rito rassicurante e autoconfermativo dell’indignazione quotidiana è diventato una delle principali forme di partecipazione al dibattito pubblico, e lo stesso vale per quello della contro indignazione.
Curiosamente, tutto ciò avviene nella convinzione che in questo sdegno permanente, così concentrato sul sé e ignaro del prossimo, sia contenuta anche una qualche forma di critica dell’esistente. In realtà, nel momento in cui l’indignazione scambia la propria capacità ideale con un’attitudine cupamente moralistica, perde anche ogni potenzialità critica, soprattutto quando finisce per negare alla radice l’imperfezione umana ma anche ogni possibilità di redenzione, come non farebbe neppure un giudice o un prete.
E, poi, di solito a scandalizzarsi è chi tende a difendere lo stato delle cose. Così, tutta questa indignazione quotidiana che anima il dibattito pubblico resta un riflesso individuale ripiegato sulla propria identità e a sua difesa. Non produce elaborazione né cambiamento. Con i suoi modi sbirreschi, si colloca, anzi, tra gli individui come un feroce meccanismo di dissuasione di ogni dissidenza e di autocontrollo sociale, oltre a essere una manifestazione zelante di omologazione. E finisce in questo modo per essere un potente motore di conservazione o, forse, larvatamente reazionario.