La sfida più difficile è incrinare il pensiero unico israeliano, scrive Amira Hass.
Davanti a me, in un caffè di Tel Aviv, sedeva un giovane dall’aria seria. Era un soldato riservista che alcuni anni fa ha preso parte – contro la sua volontà – all’arresto di un palestinese. L’episodio ha fatto scattare qualcosa in lui.
L’anno scorso ha rifiutato di partecipare all’offensiva a Gaza, ed era pronto a essere processato e condannato. Ma un comandante in gamba lo ha mandato a servire lontano da Gaza, evitando all’esercito cattiva pubblicità.
“Le mie affermazioni si basano sulla conoscenza diretta dei fatti”, ha garantito. Poi ha analizzato – con grande eloquenza – i cambiamenti avvenuti negli ultimi anni nella strategia militare israeliana, soffermandosi sui rapporti tra il comando superiore e il comando sul campo. Era chiaro che aveva riflettuto molto e che era molto interessato alle conseguenze etiche e morali del comportamento suo e dei suoi colleghi. Non mi ha raccontato niente di nuovo, ma la nostra chiacchierata mi servirà sicuramente quando capiteranno altri casi come questo.
“Sto chiudendo un cerchio”, mi ha detto all’inizio della conversazione. Sei o sette anni fa studiava giornalismo e voleva intervistarmi, perché era interessato al mio modo di lavorare fuori dai canali ufficiali. Avevo accettato, ma gli avevo detto qualcosa che lo aveva spaventato: “E io vorrei sapere qualcosa sul tuo servizio militare”. Così non mi aveva richiamato, come ha ammesso questa settimana. “Ma oggi ho capito di averla cercata perché all’epoca avevo già dei dubbi”, ha precisato.
È incredibile quanto sia difficile per persone rigorose, intelligenti e capaci liberarsi dalle catene del pensiero unico israeliano.
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