Non ho l’onore di essere “una di loro”, cioè una delle decine di ostinati attivisti che ogni settimana, da sei anni, protestano contro il muro

Khawaja significa “signore” in arabo, ma è usato per rivolgersi agli stranieri. Un freddo lunedì mattina Mohammad Khatib stava osservando alcune persone che assistevano al suo processo, quando con un sorriso ha detto: “I khawajat” (plurale). Purtroppo l’umorismo rischia di perdersi nella traduzione. Devo spiegare.

Prima del 1948, cioè prima della nascita d’Israele, i palestinesi si rivolgevano così ai loro vicini, gli ebrei. Oggi non lo fa più nessuno. Mohammad, invece, l’ha pronunciata in modo affettuoso. Più tardi mi ha spiegato: “Nelle manifestazioni contro il muro di separazione definisco gli israeliani sahayna (sionisti). Ma dato che ti ho vista tra loro, ho detto khawajat”. In realtà non ho l’onore di essere “una di loro”, cioè una delle decine di ostinati attivisti che ogni settimana, da sei anni, protestano contro il muro. Le autorità israeliane hanno deciso di impedire queste manifestazioni, che hanno prodotto una sentenza favorevole dell’alta corte (ancora non applicata) sul cambiamento del tracciato del muro.

L’esercito non si limita a reprimere le proteste, ma compie anche irruzioni violente nei villaggi. Mohammad è stato arrestato l’estate scorsa, ma è stato rilasciato su cauzione perché il suo avvocato israeliano, Gaby Laski, ha dimostrato che il giorno in cui secondo l’accusa avrebbe “lanciato sassi” era all’estero per una conferenza. Laski rappresenta molti altri attivisti accusati dagli stessi testimoni: due impauriti ragazzini che non sanno leggere né scrivere.

Tra le decine di palestinesi che ogni giorno affollano il piccolo tribunale militare, ci sono i giovani khawajat. Assistere alle udienze è il minimo che possono fare.

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it