Alle due o alle tre di notte, sveglia per il jet lag, ho scoperto di aver portato l’adattatore sbagliato: la spina non entrava nelle prese di corrente statunitensi. La batteria del portatile si stava scaricando, ed ero davvero arrabbiata. Di tutte le cose che dovevo portare con me, questa era la seconda in ordine di importanza, dopo il passaporto.

Ero ospite di un mio cugino di 89 anni, nato a Sarajevo ed ex partigiano. Oggi vive vicino a Princeton. Qui non ci sono negozi di quartiere, ma solo centri commerciali, tutti uguali, costruiti su strade larghe come la Striscia di Gaza. Quello in cui siamo entrati era più grande di un campo profughi, e ho impiegato quattro minuti per raggiungere gli scaffali del materiale elettrico.

C’erano centinaia di prodotti. Non immaginavo che una spina potesse avere tante forme né che ci potessero essere tante confezioni di pesticidi per le rose o di cornflakes. Mancava solo il mio adattatore. In un altro centro commerciale avevano un multiadattatore, ma a polarità invertite, che costava 32 dollari.

Stessa storia in un negozio di Princeton. “Come fanno gli studenti stranieri?”, ho chiesto a mio cugino. “Forse non si dimenticano di portarlo”, ha risposto.L’ultimo venditore ha almeno mostrato un po’ di comprensione. I commessi dei centri commerciali si limitavano a un’alzata di spalle. Forse dovrei imparare a fare la spesa come gli altri, quelli che spingono enormi carrelli da svuotare nelle loro enormi automobili.

*Traduzione di Nazzareno Mataldi.

Internazionale, numero 871, 5 novembre 2010*

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