“Hai sentito il discorso?”, mi ha chiesto il fruttivendolo il 24 maggio verso mezzanotte. Sapevo a cosa si riferiva. E no, non avevo intenzione di ascoltare Netanyahu che parlava al congresso degli Stati Uniti. Non avevo sentito neanche i due discorsi di Obama. Mi bastava averli letti per essere d’accordo con lui: “Non c’è possibilità di miglioramento. Gli israe­liani vanno a destra, e noi palestinesi pure”.

Ero stata tutto il giorno in due “bantustan”. Il primo è Abu Dis, un’enclave a est di Gerusalemme, nella zona B (controllo civile palestinese e controllo israe­liano per la sicurezza). Gli accordi di Oslo proibiscono all’Autorità Nazionale Palestinese di esercitare compiti di polizia nella zona B, perciò i reati abbondano.

Il secondo è un quartiere arabo di Gerusalemme, Al Issawiya. Gli abitanti sono residenti israeliani senza cittadinanza. Gran parte dei terreni vacanti sono stati espropriati dalle autorità, privando gli abitanti dei mezzi di sostentamento.

Lo scopo della mia visita era anche trovare i testimoni del pestaggio di un quindicenne da parte della polizia, lo scorso 15 maggio, il giorno della Nakba. Avevo parlato con il ragazzo nell’ospedale israeliano dov’era ancora ricoverato. I testimoni erano troppo spaventati per parlare ma “fortunatamente” basta il referto medico a provare che è stato commesso il crimine.

Dopo una giornata simile, non potevo assistere all’orgasmica accoglienza della visione belligerante di Netanyahu da parte del congresso.

*Traduzione di Andrea Sparacino.

Internazionale, numero 899, 27 maggio 2011*

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