Uno dei migliori spot pubblicitari di sempre è stato girato nel 1986 per il quotidiano britannico The Guardian. Guardatelo, se non lo conoscete. Racconta in soli trenta secondi, e in modo impeccabile, una verità troppo spesso trascurata: considerare un fenomeno da un singolo punto di vista ne distorce la percezione.

Lo spot del Guardian, e l’esigenza di trovare un punto di vista abbastanza ampio da essere non fuorviante, continuano a tornarmi in mente ogni volta che sento parlare di rottamazione.

Certo: la classe dirigente di questo paese è

la più vecchia d’Europa, un’inamovibile oligarchia di maschi anziani, molti dei quali incompetenti o corrotti, sazi di privilegi, incollati a migliaia di poltrone. Poiché questa situazione è ormai intollerabile, l’idea della rottamazione si traduce, per dirla con George Lakoff, in un frame memorabile, catartico, potentissimo.

Un frame è una definizione sintetica che contiene uno schema interpretativo implicito: quando la definizione funziona sotto il profilo linguistico e intuitivo, anche l’interpretazione implicita viene automaticamente (e acriticamente) accettata.

In realtà, e specie per l’uso che ne è stato fatto, il frame della rottamazione suggerisce un’equivalenza fallace e, secondo me, pericolosa: siamo sì abituati a rottamare ciò che è fuori uso perché vecchio, ma questo non vuol dire che dobbiamo liberarci di tutto ciò che è “vecchio” perché (necessariamente) fuori uso. E dovremmo sì rottamare l’ampia parte di classe dirigente che è impresentabile e inadeguata (ed è invecchiata restando attaccata alla poltrona), ma questo non significa identificare ogni persona “vecchia”, qualsiasi ruolo o competenza abbia, sia con la classe dirigente sia con l’inadeguatezza.

Fra l’altro, come ricorda l’Organizzazione internazionale del lavoro, non è detto che rimuovere i vecchi così, a prescindere, crei opportunità per i giovani. Guardate anche questa tabella pubblicata da Lavoce.info: nei paesi in cui il tasso di disoccupazione giovanile è più basso ci sono anche più persone tra i 55 e i 64 anni che lavorano. Questo deriva dal fatto che il numero di posti totali disponibili sul mercato del lavoro non è, come si crede, fisso, ma dipende da molte variabili, prima fra tutte l’andamento dell’economia di un paese. Che si regge, fra l’altro, anche sulla capacità di conservare e trasferire know how.

Volete per un momento lasciar perdere il frame della rottamazione e cercare qualche altro punto di vista? Ve ne propongo uno: diversi ricercatori segnalano che la creatività dei gruppi non cresce – e anche questo fatto è abbastanza controintuitivo – quanto più sono creativi i singoli partecipanti, ma quanto più questi sono diversi tra loro per età, genere, estrazione socioculturale, competenze. E quanto più, grazie a una leadership capace di mettere a sistema i contributi di tutti, il gruppo riesce a convergere su obiettivi e valori condivisi.

L’expertise dei vecchi, integrandosi con l’energia dei giovani (e magari con la flessibilità del pensiero femminile) può produrre soluzioni più nuove ed efficaci di quante ne produrrebbero solo gli uni o solo gli altri. Da questa prospettiva appare chiaro che, se si vuole davvero cambiare l’intero sistema, lo si può fare molto meglio unendo che separando. E senza correre il rischio di buttare via, con l’acqua sporca della classe dirigente impresentabile, anche il bambino (o la donna o il vecchio o il diverso) che può aiutare a cambiare le cose.

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