Lavorare meno non sempre ha effetti positivi
Sta proprio succedendo. “Più felici se si lavora sei ore invece di otto: la rivoluzione svedese che l’Europa invidia”, titola la Repubblica. In sostanza mentre nel resto della Svezia l’orario lavorativo settimanale continua a essere di 35 ore, a Göteborg, maggior porto scandinavo e seconda città svedese, gli uffici comunali, la fabbrica della Toyota e alcune altre imprese pubbliche e private, compresa una casa di cura, hanno introdotto l’orario settimanale di trenta ore.
I risultati, lo conferma il Telegraph, sono ampiamente positivi: i lavoratori stanno meglio e sono più felici, il lavoro costa meno perché diventa più produttivo e si riducono le assenze. Il Washington Post ricorda che orari di lavoro e produttività sono inversamente proporzionali, e che la maggior parte dei danesi già lavora quattro giorni alla settimana. Cita però anche una voce contraria: far tutto quanto c’è da fare in sole sei ore può risultare “troppo stressante”.
L’orario di lavoro di 40 ore è stato adottato negli Stati Uniti nella prima metà del secolo scorso, poco dopo la fine della grande depressione (in Italia nel secondo dopoguerra).
Ma già negli anni trenta l’economista John Maynard Keynes aveva fatto questa previsione: nel giro di cento anni l’espansione della tecnologia nei paesi sviluppati avrebbe ridotto i tempi di lavoro a 15 ore alla settimana, e il nuovo problema da affrontare sarebbe diventato come occupare il tempo libero mentre “l’amore per il denaro in sé, distinto dall’amore per il denaro come strumento per godere delle gioie della vita, sarà riconosciuto per quel che è: una sorta di disgustosa ossessione”.
L’inevitabile transizione a orari di lavoro ridotti sarà un processo duro e tumultuoso
Tuttavia Cnn Money segnala che fino a oggi, almeno negli Stati Uniti, l’incremento di produttività dovuto al progresso tecnologico non ha causato una riduzione degli orari di lavoro ma un aumento dei consumi: insomma, invece che lavorare di meno gli americani preferiscono comprare più roba.
Di fatto, però, nel lungo periodo l’orario del lavoro organizzato è andato sempre riducendosi: nel nostro paese si passa dalle 12 ore quotidiane dell’800 alle dieci dei primi del novecento, alle 8 (per sei giorni) degli anni venti, alle 40 o 39 ore la settimana, con quattro settimane di ferie, degli anni settanta. Oggi siamo, dice l’Ocse in una classifica che confronta diversi paesi, a una media di 36,9 ore lavorate alla settimana. I Paesi Bassi sono a 30,1.
Intanto i giapponesi dell’Uniqlo, marchio di abbigliamento diffuso in molti paesi, contraggono la settimana lavorativa a quattro giorni (ma con un aumento dei turni da otto a dieci ore). Invece Richard Branson, il fondatore della Virgin, liberalizza del tutto sia il tempo di lavoro sia il tempo delle ferie nelle sedi di New York, Londra, Ginevra e Sydney, ponendo come unica condizione il fatto che l’assenza del lavoratore non danneggi l’azienda.
Qualcosa di analogo fa qui in Italia, e da tempo, la Tetra Pack: orari flessibili o ridotti e possibilità di lavorare da casa. Il Sole 24Ore racconta che il “ciclone finanziario Netflix” applica la medesima logica, con una (cruda) coordinata in più: vanno incentivati, anche economicamente, i lavoratori talentuosi, cioè quelli che hanno prestazioni migliori in un tempo minore, e degli altri conviene disfarsi in fretta.
Di questo già Keynes era consapevole: l’inevitabile transizione a orari di lavoro ridotti sarà (a suggerirlo è anche il caso Netflix) un processo duro e tumultuoso. Da una parte, razionalizzare e ridurre gli orari, anche nella speranza di una maggiore produttività, può non essere semplice per le imprese che hanno un’organizzazione rigida.
Le idee non timbrano il cartellino
Dall’altra, la decisione di ridurre l’orario deve passare dai manager: proprio quelli che oggi sono superpagati perché superlavorano, e che superlavorano perché temono di perdere il posto (l’Economist la definisce “una condizione miserabile”). Dall’altra ancora, la riduzione degli orari potrebbe essere sì accelerata, ma anche complicata da un altro terremoto che già sta cominciando a sconquassare il mercato del lavoro.
A dirlo sono Aol, l’Mit e molti altri: metà dei lavori che facciamo oggi spariranno nel corso dei prossimi vent’anni. Nasceranno nuovi lavori che chiedono creatività, empatia, capacità di gestire situazioni ambigue e impreviste. Non è per niente detto che chi perderà il lavoro “vecchio” sarà automaticamente in grado di adattarsi a uno “nuovo”, e che quindi tutti potranno beneficiare del cambiamento, riduzioni di orario comprese.
Inoltre, a emergere sono proprio i lavori – quelli creativi – che sono più difficili da organizzare, specie se hanno una componente non di problem solving, ma puramente ideativa: le idee non timbrano il cartellino.
Tra l’altro le persone creative tendono di norma a lavorare più, e non meno del tempo previsto, per il semplice motivo che non riescono a sospendere il compito su cui sono concentrate, e che cominciano a concentrarsi quando meglio gli riesce. La transizione, dunque, non sarà per niente facile e l’intero sistema andrà reinventato, tempi, luoghi, processi e regole comprese.