L’attenzione determina, migliorandola, la qualità della nostra esperienza di vita. Se stiamo attenti, siamo in grado di capire, imparare, ricordare meglio. Evitiamo i rischi e scongiuriamo gli errori.

Se stiamo attenti possiamo apprezzare una lettura, un quadro o una musica. Possiamo reagire in modo adeguato a quanto di imprevisto ci succede intorno e rispondere a tono. Possiamo svolgere bene compiti complessi. E anche la qualità delle nostre relazioni interpersonali migliora.

Ma l’attenzione non è pienamente sotto il nostro controllo: può succedere che sia catturata da qualcosa senza che l’abbiamo deciso. E, quando siamo stanchi, il nostro livello di attenzione è basso e ondivago.

Mente vigile
Dunque, ci conviene capire almeno un po’ come l’attenzione funziona e dove può dirigersi. Sul tema sono state scritte un’infinità di pagine (l’Enciclopedia Britannica offre una sintesi della storia degli studi sull’attenzione). Ma possiamo comunque provare a mettere in fila qualche fatto interessante.

L’attenzione è uno stato mentale che riguarda il qui e ora. Prestare attenzione vuol dire che la nostra mente è vigile e non se ne sta inconsapevolmente svolazzando chissà dove. Di questo parlano Darlene Mininni, psicologa dell’Università della California, e Dan Nixon su Aeon.

Il semplice compito di distinguere e indicare una scatola rossa o verde coinvolge 50 diversi processi neurali

Il fatto di prestare attenzione implica la necessità di selezionare solo una porzione degli innumerevoli stimoli che possiamo percepire con i nostri sensi, guardando, toccando, ascoltando, annusando o assaggiando. A questi si aggiungono gli stimoli interni: i messaggi che ci invia il nostro corpo, o l’idea che la nostra mente sta formulando.

Dunque, c’è una quantità finita di cose a cui possiamo prestare attenzione nello stesso momento. Già nei Princìpi di psicologia (1890), William James scrive che “essere focalizzati vuol dire lasciar perdere alcune cose per potersi dedicare efficacemente ad altre”.

Questo succede perché il nostro cervello è potente, ma la sua capacità di elaborare informazioni è comunque limitata, in termini sia di numerosità, sia di durata: consideriamo che il semplice compito di distinguere e indicare una scatola rossa o verde coinvolge 50 diversi processi neurali.

Prestare o pagare l’attenzione
Per questo – ormai lo sappiamo da diversi anni – il multitasking è una pratica non solo inefficace, ma dannosa: costringe la mente a un inutile superlavoro non per eseguire diversi compiti contemporaneamente (non è in grado di farlo) ma per passare freneticamente dall’uno all’altro.

In italiano parliamo di “prestare” attenzione. In inglese, diciamo to pay attention. Come se l’attenzione fosse un capitale di cui disponiamo, che spendiamo per entrare in contatto con il mondo. Per certi versi è proprio così: uno stimolo irrilevante rispetto a quanto stiamo facendo, ma intenso o inatteso, può “guadagnarsi” la nostra attenzione.

Dobbiamo anche sapere che ci sono due modi in cui si esprime la nostra attenzione. Possiamo dirigerla intenzionalmente verso qualcosa (per esempio il film che stiamo guardando, il lavoro che stiamo facendo): è l’attenzione esplicita, o goal driven (orientata al compito).

Ma c’è anche un’attenzione implicita, che vigila su tutto quanto ci sta attorno ed è sempre pronta a percepire nuovi stimoli (stimulus driven): anche se siamo catturati dal film, ci accorgiamo del vicino di poltrona che comincia a mangiare patatine. Anche se siamo concentrati su un lavoro, percepiamo il suono del telefono.

Possiamo immaginare che l’attenzione agli stimoli esterni e l’attenzione al compito siano poste ai due estremi di un continuum. L’esperienza ci aiuta a stare focalizzati, ma saremo comunque esposti a una distrazione. Per inciso: la classica distrazione delle persone geniali e creative non significa che non stanno attente a niente, ma che sanno stare attentissime a quanto stanno pensando, e a nient’altro. In realtà, dunque, sono superfocalizzate.

Attivare l’attenzione
Dobbiamo comunque notare che tutti gli stimoli sono in competizione tra loro per guadagnarsi la nostra attenzione. A vincere sono, di volta in volta, gli stimoli più intensi, a livello percettivo o emotivo. O gli stimoli più inattesi (un rumore improvviso nella notte ci mette in stato di massima allerta).

Tutti noi sappiamo per esperienza che si può stare molto, poco o per niente attenti. Per indicare il livello di attenzione si usa un termine inglese, arousal, che in italiano potremmo tradurre con “eccitazione” o “attivazione”.

L’arousal riguarda il grado di attività del nostro sistema nervoso, ma è connesso anche con svariate modificazioni fisiologiche (per esempio, la pressione del sangue). Possiamo pensare che anche i livelli di arousal siano disposti in un continuum che va da un minimo (il sonno) a un massimo ed esasperato livello di vigilanza.

La cosa da ricordare è che le prestazioni migliori si ottengono quando l’arousal non è troppo basso (si sta dormendo in piedi) o troppo alto (si è così tesi e in allarme da non riuscire più a organizzare il pensiero e il comportamento). Torpore e panico pregiudicano l’attenzione.

Possiamo anche ragionare in termini di ampiezza dell’attenzione, che può essere focalizzata su un singolo elemento, o estesa a un ampio complesso di elementi. Nel primo caso parliamo di attenzione selettiva: stiamo, per esempio, cercando refusi in un testo. Oppure: di qualsiasi testo si tratti, come accade a Donald Trump, quello che ci balza all’occhio è il nostro nome. Il notissimo esperimento di Simons ci mostra, dell’attenzione selettiva, alcune conseguenze estreme.

Nel secondo caso parliamo di vigilanza diffusa: per esempio, siamo in un ambiente sconosciuto a ci sforziamo di intercettare qualsiasi indizio di pericolo. Oppure siamo su una spiaggia meravigliosa e ci apriamo alla piacevolezza di tutti gli stimoli (visivi, sonori, olfattivi, tattili).

Chiavi di lettura
In sostanza, se parliamo di attenzione dobbiamo tener presenti quattro possibili dimensioni, o chiavi di lettura. La prima riguarda l’intensità: il livello dell’arousal (dal sonno al panico, con una consigliabile propensione a stare lontani dai due estremi).

La seconda riguarda la direzione: il prestare maggiore attenzione agli stimoli interni (pensieri, sensazioni corporee) o a quelli esterni. La terza riguarda l’intenzione: l’essere volontariamente focalizzati o il lasciarsi catturare da uno stimolo. La quarta riguarda l’estensione: la maggiore o minore ampiezza del campo che stiamo considerando.

Stare attenti a come e dove si dirige la nostra attenzione può aiutarci (ricordiamo che è una risorsa limitata, e che è preziosa!) a gestirla meglio. Infine: l’eccesso di stimoli a cui siamo esposti in ogni momento ci affatica, e pregiudica la nostra capacità di prestare attenzione a ciò che importa davvero. Sembra che il semplice atto di osservare la natura sia in grado di darci, finalmente, un po’ di ristoro.

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