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Il viaggio prima del viaggio

Igor Stevanovic, Getty Images

Sono stata lontana dalle pagine di Internazionale per qualche mese, ma rieccomi.
Di solito non scrivo di questioni personali, ma stavolta, e per dirvi dove sono stata e che cosa sto andando a raccontarvi, devo fare un’eccezione.

Dunque. Dopo aver trascorso negli Stati Uniti gli ultimi due anni del liceo e i quattro d’università, a maggio di quest’anno mio figlio si è laureato (una double major in economia e psicologia), magna cum laude.

Allora mi sono detta che dovevo fargli un regalo che fosse importante sia per quello che è, sia per quello che significa. E che fosse dotato di un forte valore affettivo, al di là del valore materiale. Un regalo per sempre, impossibile da rovinare, da perdere o da rubare.

Così, gli ho proposto di fare il giro del mondo, insieme.

Per me, un viaggio così è un’occasione per rivedere alcuni luoghi che ho visitato tanto o tantissimo tempo fa e per capire le differenze: non solo i luoghi cambiano, ma anche il mio modo di viaggiare e il mio sguardo.

Forse proprio perché è stato lontano così a lungo, e ormai non ha più alcun bisogno di attestare la propria indipendenza da mammà, mio figlio ha accettato. Del resto, abbiamo già fatto diversi viaggi e siamo una buona squadra.

Per organizzare un giro del mondo bisogna avere le idee chiare e prendere una serie di decisioni, ciascuna delle quali orienta le successive

Di solito io mi faccio carico dell’organizzazione preliminare e degli itinerari, lui dell’orientamento sul territorio, della guida e, poiché parla inglese e spagnolo meglio di me, delle negoziazioni: un’equa divisione dei compiti, con il patto implicito che tutte le scelte devono essere collegiali e che, in viaggio, “uno vale uno”. Ma sul serio.

Forse avete già sentito parlare dei biglietti aerei Rtw (Round the world): hanno un costo complessivo assai inferiore al costo delle singole tratte, a fronte di alcuni vincoli. Per esempio: di norma durano fino a un anno e permettono di fare anche molte soste, a patto però di andare sempre nella stessa direzione e di prenotare in anticipo tutte le tratte. Ci sono tre diverse grandi alleanze di compagnie aree che offrono biglietti Rtw. Ci sono anche altre soluzioni (per trovarle basta una rapida ricerca in rete) ma queste sono le più note.

Dunque, per organizzare un giro del mondo, e specie se si ha a disposizione un tempo ragionevole ma comunque limitato, bisogna avere le idee chiare e prendere una serie di decisioni, ciascuna delle quali ne esclude altre e orienta le decisioni successive. È un “viaggio prima del viaggio”. Ve ne parlo ora, sperando che vi sembrerà interessante e – chissà – utile.

La prima decisione riguarda, ovviamente, il periodo del viaggio: il nostro comincia ai primi di agosto e termina a fine settembre. Questo ci obbliga a escludere l’India e i paesi del sudest asiatico (siamo in piena stagione delle piogge), le Filippine e il Giappone, le Hawaii, il golfo del Messico e i Caraibi (è il periodo degli uragani).

Seconda decisione: visitare pochi paesi, privilegiando i posti più lontani e cercando di non avere più di cinque-sei ore di differenza di fuso orario tra un paese e l’altro. Proviamo a elencare: Russia (entrambi non ci siamo mai stati), Cina (ci sono stata nel 2005), Hong Kong (ci sono stata nel 1976), Australia (mai stati entrambi), Nuova Zelanda (ci sono stata negli anni ottanta), Cile (mai stati entrambi). Ne viene fuori un viaggio essenzialmente urbano nella prima parte, nella seconda parte molto a contatto con la natura. Questo ci piace molto.

L’idea di base è questa: fermarsi in ciascun paese abbastanza a lungo da poter cogliere qualche frammento dello spirito del luogo, ma non così a lungo da perdere lo stupore. Questo permette, credo, di intercettare fenomeni che uno sguardo più diretto e prolungato forse non individuerebbe. Proprio come succede quando si guarda qualcosa con la coda dell’occhio, e si percepiscono più distintamente movimenti e bagliori.

Terza decisione: la direzione. Decidiamo di volare verso est. Questo fatto ci garantirà voli un po’ più brevi, ci costerà jet lag più difficili da smaltire (ma cinque ore di fuso non sono così tragiche) e soprattutto ci permetterà di acchiappare un ultimo scampolo d’estate in Russia, di arrivare a Shanghai quando non fa più spaventosamente caldo e di intercettare (ormai saremo a settembre) una primavera incipiente in Australia, Nuova Zelanda e Cile.

Devo dire che questa specifica strategia si è rivelata vincente: in cinquanta e rotti giorni di viaggio, abbiamo avuto soltanto una mezza giornata di pioggia (Cina, Pingyao) e un paio di acquazzoni, tanto violenti quanto brevi, a Hong Kong (un tifone di livello due: robetta, insomma).

Quarta decisione: usare mezzi alternativi all’aereo (treno, auto, nave…) per tutti i tragitti inferiori agli 800 chilometri (un bell’articolo di Internazionale spiega bene perché questo criterio riduce l’impatto ambientale). Senza contare che, percorrendo un paese, se ne capisce molto di più che volandoci sopra. E poi: spostarsi a piedi o in metropolitana nelle città.

Quinta decisione: viaggiare con un bagaglio contenuto, altrimenti prendere treni e metro, o semplicemente caricare e scaricare l’auto a ogni tappa, diventa un incubo. Dunque: un bagaglio a mano (borsa, zaino) e una valigia per ciascuno, non troppo grande.

“Un bagaglio di dimensioni contenute”. Mosca, corridoio dell’hotel National.

Ecco cosa ho messo in valigia, per un itinerario che, comunque, dura quasi due mesi e prevede oltre 30 gradi di escursioni termiche.

  • Biancheria per una settimana;
  • quattro paia di pantaloni;
  • cinque maglie di cotone a manica lunga, tre senza maniche;
  • stivali bassi, sneakers, scarpe da trekking, sandali.
  • un impermeabile di nylon;
  • un gilet, una giacca a vento e un soprabito di piumino, leggeri ma sovrapponibili uno all’altro:
  • un pullover e un cardigan con cappuccio;
  • due sciarpe di lana di diverso peso, una di cotone;
  • un costume da bagno;
  • due abiti estivi e una gonna;
  • cappello da sole;
  • ombrello:
  • adattatori (indispensabili in Australia e Nuova Zelanda).

E poi:

  • una busta con spazzolino, dentifricio, creme solari eccetera, un’altra con farmaci d’emergenza (Tachipirina, antibiotici, antidolorifici, fermenti lattici…). Quest’ultima, per fortuna, rimasta intatta, a parte i fermenti lattici: indispensabili quando si affrontano oltre 150 tra colazioni, pranzi e cene costituite per buona parte da cibi non abituali.

Infine:

  • guide turistiche, una per paese;
  • supporto per fissare il cellulare al cruscotto, buste di nylon di varie misure per metterci abiti, maglie e biancheria. Si comprano facilmente in rete (digitare: organizer viaggio). Dimezzano il tempo necessario per rifare ogni volta la valigia e impediscono che diventi in breve un caos di panni stazzonati e frullati insieme;
  • nella borsa a mano: computer, tablet, libri, caricabatterie.

Oltre a facilitare gli spostamenti, la scelta del bagaglio ridotto aggiunge un ulteriore elemento di vita vera al viaggio: vuol dire, per esempio, dover comprare detersivi in cirillico annusando le confezioni in un supermercato di Mosca, e poi avventurarsi in uno spericolato bucato nella vasca da bagno dell’albergo.

Bucato spericolato – anche perché ci metterà due giorni ad asciugare.

Oppure: vuol dire scovare una lavanderia a gettone nella più remota periferia di Shanghai (in rete bisogna cercare self service laundromat), giusto accanto a un tosatore di gatti. O scoprire che, a Sidney, se porti gli abiti in lavanderia te li restituiscono in albergo, piegati ma non stirati, a un prezzo più che accettabile (in rete bisogna cercareWash & fold laundry – un servizio che si potrebbe importare anche da noi). E che il tizio della lavanderia è svizzero-ticinese, mi dà subito del tu e parla italiano con l’accento di mia nonna.

Sesta decisione. Alternare sistemazioni economiche (specie in Australia e Nuova Zelanda) a qualche albergo di fascino storico: dopotutto questo viaggio è un regalo e, per esempio, aprire le tende la mattina e trovarsi davanti al naso il Cremlino fa parte della cose-che-non-si-dimenticano. Lo stesso criterio vale per il cibo: ci si può anche comprare il pranzo al supermarket, per poi cenare in un buon posto.

Insomma: in poco meno di due mesi ho scattato più di milletrecento foto. Abbiamo percorso circa 650 chilometri a piedi (una media di 13 chilometri al giorno), qualche migliaio di chilometri in auto e qualche altro migliaio in treno. Abbiamo visto i ragazzi di Hong Kong uscire a frotte dalla metropolitana gridando “Fight for freedom”. E abbiamo visto un’interminabile fila di fedeli in attesa di baciare l’icona miracolosa della madonna del Kasan a San Pietroburgo. Abbiamo visto i canguri saltare liberi nel rosso del tramonto ai bordi estremi della penisola Fleurieu. E la cima del vulcano Tongariro bianca di neve e di nuvole.

Nel confronto tra i diversi paesi, questo viaggio mi ha fatto scoprire cose che non conoscevo, intercettare alcune tendenze che sono ancora sotto traccia e alcune curiose analogie, e capire che né le differenze né le somiglianze vere sono quelle che per prime ci vengono in mente.

Sì, proverò a raccontarvene.

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