Cosa ci insegnano i migranti sulla felicità
I più accesi dibattiti sull’immigrazione tendono a girare intorno al concetto di infelicità. Uno schieramento vorrebbe allentare le restrizioni per i migranti, di solito a causa delle condizioni di povertà in cui versano nei loro paesi di origine e delle sofferenze patite durante la migrazione. Il fronte opposto sostiene invece che i migranti provochino infelicità agli abitanti dei paesi dove arrivano perché riducono i posti di lavoro, cambiano la cultura o fanno aumentare il crimine.
Ma cosa accadrebbe se ribaltassimo la prospettiva e osservassimo l’immigrazione attraverso le lenti della felicità? “Qui centinaia di migliaia di persone hanno trovato la felicità che avevano cercato invano nelle terre europee”, scrisse negli anni ottanta dell’ottocento C. F. Carlsson, svedese emigrato in Nebraska, in una lettera indirizzata ai suoi parenti rimasti in patria. “La maggior parte di loro è arrivata qui senza mezzi, e molti avevano debiti. Ma grazie alla buona volontà e a una grande perseveranza, nel giro di pochi anni sono riusciti a ottenere prosperità e spesso addirittura ricchezza”.
Non esiste un modo per verificare queste affermazioni, anche perché 140 anni fa non esistevano i sondaggi sulla felicità. Oggi, però, abbiamo gli strumenti per stabilire se gli immigrati siano più felici di quanto non fossero nei loro paesi d’origine. Possiamo inoltre analizzare l’effetto della loro presenza sulla felicità degli abitanti dei paesi dove arrivano. Facendoci queste domande possiamo trarre insegnamenti positivi su come affrontare la vita – sia per chi decide di emigrare sia per chi preferisce restare dove sta.
La ricerca
Nel 2018 alcuni ricercatori di Gallup e dell’università Erasmus di Rotterdam hanno valutato il grado di felicità dei migranti a livello mondiale, usando i dati del Gallup world poll relativi a 36mila immigrati di prima generazione in 150 paesi e territori. Si tratta dello studio più ampio mai condotto sul tema. Nella maggior parte dei casi i ricercatori hanno verificato che emigrare aveva migliorato il tenore di vita. Tra le persone che lo avevano fatto si è registrato un aumento della felicità in media del 9 per cento.
Il grado di miglioramento delle condizioni sembra variare in base all’origine e alla destinazione. Gli immigrati che hanno lasciato l’Europa occidentale per trasferirsi in quella orientale, per esempio, non hanno percepito un miglioramento nella vita, e lo stesso vale per le persone che si sono spostate tra Stati Uniti, Canada, Australia e Nuova Zelanda. Al contrario, tra quelli che hanno lasciato l’Africa subsahariana diretti in Europa occidentale la felicità è aumentata in media del 29 per cento.
Questo miglioramento si registra anche tra i migranti più anziani, che in generale si trovano svantaggiati quando devono adattarsi a una nuova cultura e a una nuova lingua. Nel 2019 i ricercatori hanno studiato più di settemila immigrati con più di sessant’anni negli Stati Uniti, rilevando che anche loro erano concretamente più felici dopo la migrazione. Gli stessi ricercatori hanno scoperto che gli immigrati anziani erano generalmente più felici degli statunitensi anziani, soprattutto nel caso degli ispanici.
Gli studi dimostrano che le società aperte che accolgono i migranti registrano un aumento della felicità
Una spiegazione ovvia della maggiore felicità dei migranti è che molti trovano nel paese d’adozione opportunità finanziarie che non esistevano in quello d’origine. (Questo fattore può spiegare come mai le persone che si spostano dall’Europa occidentale a quella orientale tendano a non percepire benefici). Secondo un sondaggio del 2021 sull’immigrazione, il 53 per cento degli immigrati di prima e seconda generazione negli Stati Uniti indica le ragioni economiche come il motivo principale per la scelta di emigrare.
Un’altra ragione è legata allo spirito imprenditoriale. Gli imprenditori, a prescindere dal loro status migratorio, tendono a essere più felici rispetto ai non-imprenditori, anche a parità di guadagni. I ricercatori ipotizzano che questo fattore sia legato al controllo che gli imprenditori hanno sul loro tempo e sulla loro carriera. La percentuale di imprenditori tra gli immigrati è sproporzionatamente elevata. Persino l’atto di migrare è in se “imprenditoriale”, perché comprende rischio, fiducia nel futuro e sul fatto di essere ricompensati.
È per questo motivo che nel 1980 Ronald Reagan celebrò lo spirito degli immigrati nel suo discorso di accettazione della nomination repubblicana per la presidenza. “Vi chiedo di riconoscere che lo spirito americano non conosce confini etnici, religiosi, sociali, politici, regionali o economici”, dichiarò il futuro presidente. “È lo spirito che arde con zelo nei cuori di milioni di immigrati provenienti da ogni angolo della terra”. Ironia della sorte, quel memorabile discorso a favore dell’immigrazione conteneva una frase che sarebbe stata riproposta all’interno di un programma contro l’immigrazione: “Make America great again”.
Le parole di Reagan suggeriscono che gli immigrati siano capaci di rendere più felice il resto della comunità. È un’affermazione controversa, soprattutto nella nostra epoca, ma gli studi dimostrano che le società aperte che accolgono i migranti registrano un aumento della felicità, mentre quelle che manifestano un atteggiamento ostile nei loro confronti registrano una riduzione nel benessere medio quando i livelli di immigrazione aumentano. In un paese come la Grecia, dove nel 2018 l’82 per cento della popolazione dichiarava di volere meno immigrati (o nessun immigrato), l’aumento dell’immigrazione provocherà probabilmente una riduzione della felicità media. L’effetto sarà meno evidente negli Stati Uniti, dove la percentuale era appena del 29 per cento.
Insegnamenti
Il legame tra l’immigrazione e la felicità complessiva di un paese è ancora più pronunciato quando gli immigrati sono integrati nel paese d’adozione. Uno studio basato su dati provenienti dalla Germania ha stabilito che quando gli immigrati lavorano, guadagnano, si sentono parte della nuova cultura e parlano la lingua locale la felicità dei tedeschi aumenta. Il rapporto tra l’assimilazione e la felicità è invece più complicato nel caso degli immigrati stessi.
L’insegnamento più ovvio che è possibile trarre dalle ricerche è che una persona, se non è felice nel paese in cui vive, probabilmente sarà più felice se riuscirà a spostarsi in un altra città o in un altro paese. Naturalmente è legittimo preoccuparsi che la nuova situazione possa rivelarsi peggiore della vecchia, ma gli studi sugli immigrati indicano che le probabilità di un miglioramento sono maggiori.
Un secondo insegnamento è che il legame tra lo spirito imprenditoriale e la felicità non è un fenomeno strettamente economico. Chi migra vive un’esistenza “da start-up”: mette a rischio un capitale sociale, religioso e linguistico; agisce spinto dalla fiducia in sé e nel proprio futuro; persegue grandi benefici, economici e non solo. A prescindere dallo status migratorio, ognuno di noi dovrebbe seguire questo approccio, agendo con coraggio e speranza. Prendiamo un esempio non-economico: se siete single e infelici, immaginate di seguire un percorso imprenditoriale verso l’amore. Mettete a rischio il vostro cuore, con la fiducia di poter accettare anche un umiliante rifiuto.
Il terzo insegnamento è che quando si effettua un grande cambiamento bisogna ricordare che adottare un nuovo stile di vita può portare benefici. Opporsi al cambiamento può rendere le transizioni più difficili di quanto già non lo siano. Se vi trasferite in un nuovo contesto, per esempio, avrete la tentazione di rendere il nuovo spazio il più simile possibile alla vecchia casa, in modo che risulti familiare e comodo. Così facendo, però, dichiarate inconsciamente che la vecchia vita era migliore della nuova. Meglio adattare le proprie abitudini, i propri gusti e i propri affetti alla nuova vita. Se vi spostate da Chicago a New York, imparate ad amare la crosta sottile della pizza. Se vi spostate da New York a Boston, provate a fare il tifo per i Red Sox, per quanto questo possa sembrare contrario alla legge naturale. Probabilmente dio non vi fulminerà, e potreste perfino farvi qualche amico locale.
Infine, se vedete molte persone nuove nella vostra città, nella vostra azienda, nella vostra scuola o nella vostra chiesa, ricordate che questa situazione influirà sul vostro benessere in base a come deciderete di accogliere i nuovi arrivi. Se vi opporrete, sceglierete l’infelicità. Cercate invece di essere felici di vedere facce nuove e aiutatele a integrarsi nella nuova comunità. Questo farà stare meglio sia voi sia loro.
Se non vi siete mai trasferiti in un altra città o in un altro paese, cercare di capire i migranti potrebbe non essere semplice. Innanzitutto in molti paesi sono spesso denigrati per fini politici. Inoltre, gli esseri umani hanno la tendenza a vedere gli immigrati come intrusi, un elemento che potrebbe derivare dalle società tribali in cui gli stranieri erano una minaccia naturale.
Le religioni ci hanno invitato a combattere questa tendenza basandoci su concetti morali. “Non opprimerai lo straniero: anche voi conoscete la sua vita, perché siete stati stranieri in Egitto”, si legge nel libro dell’Esodo. Molti governi e organizzazioni sociali ci mandano lo stesso messaggio.
Ma possiamo fare un passo in più e renderci conto che considerare il lato positivo dell’immigrazione fa bene a tutti, non solo agli stranieri. Gli immigrati sono un modello di vita per tutti noi, ci spingono a non accettare il nostro status quo e a capire che non siamo vincolati alle circostanze della nostra nascita. Per questo motivo, davanti a loro, non dovremmo provare soltanto una riluttante accettazione, ma ammirazione e gratitudine.
(Traduzione di Andrea Sparacino)
Questo articolo è uscito sul sito dell’Atlantic.