La storia del naufrago sopravvissuto per 438 giorni nel Pacifico
José Salvador Alvarenga è un pescatore e ha al suo attivo più di 300mila miglia di navigazione quando il 17 novembre del 2012 esce per una battuta di pesca al largo di Costa Azul, in Messico. Ha pianificato di restare in mare dalle dieci del mattino fino alle quattro del pomeriggio del giorno successivo. Ha portato con sé un piccolo specchio, un rasoio, uno spazzolino da denti, due cambi d’abito, oltre a un gps, una radio con le batterie quasi scariche, e novantuno chili di ghiaccio. Sulla sua piccola imbarcazione ha caricato quasi 500 chili di attrezzatura da pesca. Con lui c’è Ezequiel Cordóba, un ragazzo di ventidue anni più famoso a terra per le sue doti di calciatore che in mare per quelle di pescatore.
Con gli uomini usciti quel giorno, los tiburoneros, come sono soprannominati i cacciatori di squali, i due pescatori seguono le procedure per cominciare il lavoro: superano la laguna e spengono il motore in mare aperto per fumare qualche canna e concedersi qualche battuta prima di prendere il largo ognuno verso il suo destino. Quello di Alvarenga lo porterà alla deriva nel Pacifico meridionale, senza scorte di acqua né cibo, per i quattordici mesi successivi. Toccherà terra di nuovo a Tile island, una delle 1.156 isole che compongono l’arcipelago delle Marshall, a 6.700 miglia da dove era salpato.
Ha sperato di morire. O che qualcuna delle navi container di passaggio, più di venti nel corso dei mesi, si accorgesse di lui
Jonathan Franklin, scrittore e giornalista del quotidiano The Guardian, l’ha raggiunto in El Salvador, suo paese d’origine, per raccontarne l’incredibile avventura nel libro 438 giorni: l’incredibile storia vera di un uomo sopravvissuto all’Oceano (in uscita in Italia per Fabbri editori). “All’inizio era molto provato”, ha raccontato Franklin. “Aveva avuto pessime esperienze con i mezzi d’informazione, rifiutava di ricordare, era difficile. Spesso riuscivamo a parlare solo per poco prima che gli venisse un forte mal di testa e s’interrompesse bruscamente. Credo si chiedesse se avrebbe mai incontrato qualcuno disposto ad ascoltarlo senza pregiudizi”. Perché nessuno prima di lui era riuscito in una simile impresa.
In quella fatidica battuta di pesca, i due uomini si erano trovati nel mezzo di una tempesta. Alvarenga aveva lottato giorno e notte per allineare lo scafo alle onde cercando di rientrare. Si era liberato di tutta l’attrezzatura e del pescato per alleggerire la barca e mantenerla a galla. Era riuscito a contattare i soccorsi ma non a dare la sua posizione. Poi il motore aveva ceduto proprio in vista della costa e da allora di lui era scomparsa ogni traccia.
Il sapere polinesiano
Al suo arrivo all’isola di Tile quest’uomo di mare giovane e forte era irriconoscibile, stava in piedi a fatica, aveva la barba incolta e arruffata, gli abiti consunti, le caviglie gonfie, i polsi esili ed evitava gli sguardi diretti. Nel corso della sua odissea ha sofferto la fame, la sete, la depressione, il caldo estremo di giorno e il freddo la notte. Ha imparato a cacciare come un gatto gli uccelli che si posano sulla sua barca per mangiarli crudi insieme a qualche pesce e tartaruga, pescati con le mani. Ha raccolto dal mare rifiuti, vecchi contenitori di plastica per conservare l’acqua piovana. Ha sperato di morire. O che qualcuna delle navi container di passaggio, più di venti nel corso dei mesi, si accorgesse di lui.
Dopo la morte del compagno Alvarenga è sospettato di cannibalismo, la falsità più dolorosa da accettare
“In più di un anno in mare”, racconta il giornalista, “Alvarenga ha sempre tenuto conto delle fasi lunari. Non sa leggere e scrive a fatica ma ha una memoria eccellente. Credo di avergli fatto più di 1.500 domande durante la mia inchiesta. Mi diceva cose come ‘credo fosse durante la settima luna’ o ‘questo è successo dopo la quarta luna’. Difficilmente si confondeva e a volte stava a me ricostruire gli episodi mettendo insieme le risposte”. Franklin cerca continui riscontri alle ore trascorse ad ascoltarlo. È così che scopriamo tanti piccoli dettagli sulla storia, la personalità e le abilità di Salvador Alvarenga, capace di orientare la sua piccola barca nell’oceano in tempesta e nel buio pesto della notte, “sentendo le onde”.
“I navigatori polinesiani”, scrive il giornalista nel libro, “insegnano simili capacità ai loro figli adolescenti facendoli galleggiare sul dorso giorno dopo giorno, per mesi, affinché imparino a leggere gli impalpabili messaggi contenuti in ogni onda”. È così che, da adulti, sono capaci di leggere i segni che l’oceano gli invia da centinaia di chilometri.
Dopo i primi due mesi in mare, Ezequiel Córdoba, si sente male: ha ingerito i resti velenosi di un rettile insieme alla carne cruda di un volatile. Da quel momento si rifiuta di mangiare, smette di combattere, deperisce e si lascia morire. Quando approda, Alvarenga è subito sospettato di cannibalismo. “Credo che di tutte le falsità circolate sulla sua storia, questa sia la più dolorosa da accettare per lui. In quel momento aveva cibo a sufficienza e la verità è che l’idea di rimanere da solo lo terrorizzava”.
Quando il suo compagno muore Alvarenga continua a comportarsi per giorni come fosse vivo: gli parla per ore, lo incita, gli racconta delle storie, gli fa promesse, gli chiede consiglio. Poi, come svegliandosi da un incubo, si arrende, lo getta in mare e sviene.
Alvarenga passa attraverso la paura, il terrore, la disperazione, ma alla fine si abitua fino a entrare in sintonia con la sua nuova realtà
Quando si sveglia è solo, un chicco di riso nell’immensa distesa dell’oceano. Miglio dopo miglio avanza nel suo viaggio involontario, ricostruito dal giornalista attraverso testimonianze e dati scientifici sulla psicologia della sopravvivenza, sull’ecosistema del Pacifico, il clima, le correnti.
“Se mi avessero detto di qualcuno arrivato alla deriva fino in Micronesia partendo dalle coste del Perù”, spiega nel libro Shang-Ping Xie, climatologo, “non ci avrei mai creduto. Nell’emisfero meridionale, non c’è pioggia sufficiente a sostenere la vita. Chiunque affrontasse un viaggio del genere non avrebbe speranza”. Ma appena più a nord dell’Equatore, Xie non ha dubbi sulla riuscita del viaggio di Alvarenga. Che passa attraverso la paura, il terrore, la disperazione, ma alla fine si abitua fino a entrare in sintonia con la sua nuova realtà, fino a sentirsi abbastanza sicuro da lasciare il suo guscio galleggiante nel mezzo dell’oceano per entrare in acqua a nuotare, fino a trascorrere ore a cucirsi scarpe di pelle di squalo, fino a smettere di desiderare la terra.
Il soffitto senza le stelle
Per giorni si lancia in lunghe conversazioni con uno squalo balena, lo osserva, lo avvicina, lo tocca e fantastica su una nuova famiglia che comprenda uomini e animali, una realtà parallela nella quale può cavalcare il pesce o entrare nella sua bocca come un moderno Pinocchio, ma dopo una settimana il suo compagno “di strada” scompare: “Era qualcuno con cui parlare”, spiega Alvarenga nel libro. “Il tempo passava velocemente. Quando ero solo, i giorni erano lunghi, ero annoiato. Quando lo squalo era con me piangevo meno, potevamo parlare di tutto”.
Sopravvivere in un mondo fantastico popolato di animali selvatici, allucinazioni reali e pace interiore non lo prepara, però, nemmeno al rientro a terra. “Senza stelle in cielo sembrava che qualcuno avesse spento il mondo”, racconta Alvarenga delle sue prime notti a terra. “Solo nel mezzo dell’oceano, le stelle mi davano la sensazione che tutto fosse a posto. Guardare il soffitto invece mi metteva a disagio”. Ma oltre il mare e l’avventura, ciò che rende davvero attraente questa storia galleggia tra le parole dell’autore nell’ultima parte del libro: “Quello che ho scoperto durante la mia inchiesta giornalistica è stato un uomo umile con una lista infinita di amici e colleghi pronti a dettagliare le sue stupefacenti doti di sopravvivenza, incrollabile umorismo e implacabile voglia di vivere. Passare del tempo con Salvador è stata un’avventura e una lezione che non dimenticherò mai”.